Ancona-Osimo

Giornata mondiale contro l’abuso di droga. La testimonianza di chi ha lottato per la propria vita

Uscire dalla droga è possibile, ma bisogna crederci e farsi aiutare. La storia toccante di Alice, 39 anni, che a 18 è diventata schiava dell'eroina

ANCONA – «Con l’eroina mi sentivo invincibile, inattaccabile. Colmava la mia incapacità di amare e di amarmi, ma non capivo che mi stava distruggendo». Alice oggi ha 39 anni, un lavoro, la passione per la pittura. Ma soprattutto, è una donna nuova, libera dalla schiavitù della droga che per quasi 10 anni ha avuto il sopravvento nella sua esistenza. Nella “Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico illecito di droga” istituita dall’Onu, la sua voce è quella di chi ha combattuto tanto ma alla fine ce l’ha fatta. E adesso ne parla guardando alla sua vecchia vita da lontano, senza riconoscersi, ma con la speranza che il suo esempio venga seguito da altri che si trovano in quel maledetto tunnel.  

Alice, quando ha iniziato ad assumere droga?
«Ero giovane, avevo 18 anni e una situazione affettiva attorno a me che non mi piaceva. Volevo evadere da tutto e da tutti, anche dalla mia persona. Così sono venuta a conoscenza di questa sostanza stupefacente, l’eroina, del suo grande potere. Sapevo di miei compaesani più grandi che ne facevano uso, ero attratta da loro, li vedevo intoccabili. Avevo conosciuto una ragazza, molto più grande di me, che ne faceva uso da un po’ ma lei mi disse di non avvicinarmici, che non era come pensavo io. Ma ero giovane, sono sempre stata curiosa di provare le cose sulla mia pelle, così ho provato.. ».

E cosa ha provato all’inizio?
«All’inizio mi sembrava l’unica cosa in grado di darmi davvero la forza di cui avevo bisogno, mi faceva sentire come un’amazzone, forte. Mi sentivo invincibile, inattaccabile. Per otto lunghi anni lo scopo principale delle mie giornate era farmi».

L’eroina colmava i vuoti?
«Sì. Esatto. Non ero in grado di amare me stessa e neanche gli altri. Trovavo nell’eroina un qualcosa che era solo per me, mi faceva sentire invincibile, in grado di far tutto. Era una specie di coccola che mi riservavo. Quindi pensavo che quando mi facevo, era un gesto d’amore per me stessa».

Quando ha capito che era nata una dipendenza e doveva tirarsene fuori?
«Ci sono stati diversi momenti della mia vita in cui ho capito che mi stava distruggendo e dovevo smettere, ma non ce la facevo. Non accettavo di farmi aiutare, perché sottovalutavo il problema, ma di fatto da sola non riuscivo. Finché non ho toccato il fondo».

Cosa è successo?
«È successo che la vita che facevo non mi piaceva più, non riuscivo a smettere da sola e avevo capito di essere schiava dell’eroina. Avevo perso il mio lavoro al canile, mi avevano ritirato la patente, mia madre non mi voleva più. Continuare ad andare avanti così significava non vivere…così ho tentato il suicidio ingerendo dei farmaci».

Per fortuna sono riusciti a salvarla, in tutti i sensi.
«Esatto. Mi hanno salvata in extremis. In ospedale, quando ripresi i sensi, parlai con uno psichiatra che mi prospettò di andare in una comunità specializzata dove delle persone mi avrebbero aiutata a disintossicarmi e salvare quel che restava della mia vita, perché da sola, mi spiegarono, non se ne esce».

Quando ha svoltato davvero?
«Lo ricordo come fosse ieri: il 5 agosto 2011. Sono entrata nella pre-comunità, un centro di recupero a Chiaravalle, dove persone con il mio stesso problema potevano stare da un minimo di tre a un massimo di sei mesi. Io ci sono rimasta sette mesi, poi sono andata all’Oikos. Tra pre-comunità, comunità e periodo di reinserimento nel lavoro e nella società, ci ho messo tre anni, dal 2011 al 2014».

Ha mai pensato di mollare e tornare all’eroina?
«In realtà sì, soprattutto all’inizio. A Chiaravalle stavo bene in struttura, ma sentivo il bisogno di farmi, così chiedevo che gli operatori mi accompagnassero a farmi e poi mi riportassero dentro. Ovviamente non fu così, è stato durissimo. Anche all’Oikos ho pensato di mollare, perché inizialmente non conoscevo nessuno e non potevo che fidarmi e affidarmi agli operatori. Poi però con il tempo i rapporti si sono consolidati, tutti si preoccupavano per me, di come stavo, e ho capito che magari a qualcuno importava, le persone che mi stavano attorno si fidavano di me e dovevo impegnarmi».

Come è stato il reinserimento nella società e nel lavoro?
«Anche quello è stato duro, lo ammetto. Il percorso di reinserimento dura un anno, in cui puoi cercarti un lavoro ma devi tornare a dormire in comunità. Il mio primo lavoro della nuova vita è durato un giorno solo: avevo trovato da fare la cameriera in un ristorante a Marina di Montemarciano, un posto che adesso non esiste più. La sera del mio primo giorno c’era un concerto, tanta gente sbronza, musica. E droga. Il mio titolare mi offrì della cocaina, io rifiutai. Ma avevo paura che restando a lavorare lì ci sarei potuta ricascare, così finito il turno mi feci pagare il lavoro e non andai più. Il secondo lavoro, in un pub a Serra de’ Conti, stessa situazione. Mi offrirono della coca, e anche stavolta scappai a gambe levate. Poi grazie all’Oikos ho fatto le campagne dell’uva e trovai lavoro in un supermercato, finalmente un po’ di pace».

Che sensazione prova adesso a riparlarne?
«In realtà è come se stessi parlando di qualcun’altra. Non ero più io quella. Non mi riconosco in quelle cose orribili che ho fatto, eppure le ho fatte. Non ho disprezzo per quella che sono stata, ho rielaborato e accettato ogni sbaglio. Oggi sono fiera di essere come sono, forte e consapevole».

Non ha mai avuto paura di tornare indietro?
«A volte sì. So che anche gli operatori della comunità lo temevano per me: durante il reinserimento avevo conosciuto una ragazza che viveva i miei stessi problemi. Ce l’abbiamo fatta entrambe, ci siamo innamorate e siamo state insieme quasi cinque anni. Quando ci siamo lasciate, gli operatori temevano che non avrei retto al dispiacere e che sarei ricaduta nella droga. Invece no, non faceva ormai più parte di me. L’amore per lei, per la mia famiglia, per gli amici e per gli affetti incontrati in comunità, mi hanno spinto a reagire, non volevo deluderli perché loro si fidavano di me. Tornare alla mia vecchia vita significava tradire chi credeva in me. E se gli altri avevano creduto tanto nelle mie possibilità, perché mai non avrei dovuto crederci io? Così ho girato pagina».

Cosa augura a sé stessa ora?
«Mi auguro di continuare a vivere, ad ascoltarmi, a sentire ogni singola emozione che nel bene e nel male sono quelle che ti mandano avanti. Da quando ho chiuso col passato mi sono avvicinata all’arte, mi ritengo una ritrattista. Amo dipingere volti, perché mi piace ritrarre le persone e disegnare le loro emozioni».

La sua storia così bella e intensa di rinascita può essere un esempio per altri che vivono la sua stessa sofferenza…
«Lo so. E ho accettato di buon grado di affrontare questa intervista proprio per la finalità benefica del messaggio che voglio lanciare: l’ho già fatto durante la serata della “Riconferma” (dopo cinque anni dalla fine del percorso) e lo faccio anche ora, perché è bello trasmettere la consapevolezza che non è impossibile uscire dalla droga e tornare a vivere. Volere è potere».