ANCONA – Era il 31 gennaio 2020 quando il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiarò lo stato d’emergenza in Italia. Nessuno poteva presagire quanto sarebbe successo da li in avanti. Mentre era in atto un dibattito nel mondo scientifico, tra virologi che sostenevano si trattasse di una influenza un pò più aggressiva e chi invece lanciava lo spettro di una pandemia globale, il virus intanto correva veloce, nell’inconsapevolezza della popolazione.
Senza mascherine, strumento di protezione insufficiente anche negli ospedali, e con gli ingressi aerei dalla Cina ancora aperti, l’Italia ha subito prestato il fianco alla pandemia di covid-19. La data nera per l’Italia è il 21 febbraio quando viene diffusa la notizia del primo caso di infezione a Codogno in Lombardia: si tratta di un 38enne ricoverato in ospedale con polmonite da coronavirus, poi due casi a Vo’ Euganeo, uno dei quali muore. È il primo di una lunga lista di decessi che ancora oggi ci viene comunicata nei bollettini giornalieri, ormai un triste appuntamento fisso che scandisce contagi e ricoveri, fornendo un report sulla pandemia.
Il 22 febbraio Conte firma il decreto per l’istituzione della zona rossa nel Lodigiano, ma il virus ormai già correva, impossibile arrestarlo. Di li a poco la situazione degenera, i decreti iniziano a susseguirsi a raffica per tentare di arginare la situazione: il 4 marzo scuole e università vengono chiuse in tutta Italia, nelle Marche lo erano già da fine febbraio dopo un tira e molla con il governo centrale. L’allora presidente delle Marche Luca Ceriscioli aveva chiuso le scuole, una iniziativa che se prima era stata criticata dal governo poi è stata seguita anche a livello nazionale.
E siamo all’8 marzo. Il Paese è attonito e scioccato, diviso tra chi grida all’allarmismo e chi invoca chiusure per frenare la strada al virus, una diatriba aperta ancora oggi. In quella data la Lombardia e 14 province nel nord vengono dichiarate “zona rossa”. Palestre, piscine, cinema, teatri abbassano le serrande, ristoranti e bar chiudono alle 18. Dal nord del Paese scatta il fuggi fuggi verso il sud: sono gli italiani che scappano da Milano per tornare nelle loro terre di origine, le stazioni vengono prese d’assalto e i treni affollati diventano la nuova “culla” del virus.
Il 9 marzo Conte annuncia che dal giorno dopo tutta l’Italia sarà zona protetta. “Io resto a casa” è l’invito rivolto alla Nazione e il provvedimento che con un Dpcm (Decreto del Presidente del Consiglio) concede spostamenti solo per ragioni di lavoro, salute e necessità, muniti di autocertificazione, e vieta gli assembramenti. L’Italia ormai è il secondo paese al mondo per decessi legati al covid dopo la Cina, un triste primato. Intanto l’opposizione continua a sollecitare la maggioranza al governo per interventi più incisivi, chiede la chiusura delle attività produttive per stoppare la strada al virus e accusa ritardi che avrebbero potuto evitare il diffondersi massiccio della pandemia.
Un Paese incredulo all’ora di cena assiste alla diretta Tv e Facebook del presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, è l’11 marzo, una data che resterà stampata nella mente di tutti: il premier annuncia «l’Italia è zona rossa». I motori dell’Italia che ogni giorno si sveglia presto e produce, esportando le sue eccellenze nel mondo, si fermano: restano aperte solo le attività di prima necessità (alimentari, banche, poste, farmacie e poco altro). Si può uscire di casa solo per la spesa, per andare al lavoro, nelle attività ancora aperte, o per ragioni di salute. A guardarsi indietro sembra quasi un film, ma è la realtà, una realtà nella quale siamo ancora immersi.
Le strade dal nord al sud si svuotano, un paese spettrale, l’ombra di sé stesso. I principali media di informazione nel mondo riportano la notizia del lockdown in Italia, dalla Bbc alla Cnn. Le manifestazioni di solidarietà si moltiplicano all’estero, sono molti i Paesi e le città che si “tingono” del tricolore: fra questi Sarajevo, Palestina, Toronto, Brasile, poi messaggi di vicinanza dagli Stati Uniti. Gli italiani, bloccati fra le quattro mura domestiche, si affacciano dai balconi e nasce un flashmob che percorre tutto il Paese: «Andrà tutto bene», un motto, una speranza che accomuna tutti, anche i bambini che disegnano arcobaleni colorati, sperando che passi tutto il prima possibile. Le chiusure delle attività iniziano a produrre perdite di fatturato e il 15 marzo viene varato il primo decreto con sostegni all’economia. Date che entreranno nei libri di storia.
Gli italiani usciranno dal lockdown solo il 4 maggio, dopo che la sanità in diverse regioni ha rischiato il collasso: infermieri e medici hanno lavorato senza sosta per salvare vite e arriva anche il supporto della sanità militare. Si continua però a morire, per un virus, sconosciuto, ma neanche tanto, che però trova il mondo inerme. Vengono i brividi sulla schiena a ripercorrere queste tappe, che hanno cambiato la vita di tutti e piano piano di tutti i Paesi. Distanze, gel igienizzanti, mascherine ormai sono compagne che scandiscono le nostre giornate.
Una vita sospesa. Indubbiamente il 2020, è un anno che fa da spartiacque fra il prima e il dopo pandemia, fra la normalità e una vita presa in ostaggio da un virus. Il covid-19, partito da Wuhan si è diffuso a macchia d’olio e la pandemia è ormai globale. In Italia i primi due casi furono una coppia di turisti arrivati in pullman da Wuhan, ricoverati a fine gennaio allo Spallanzani di Roma. La coppia guarisce e a marzo viene dimessa, per loro la fine di un incubo, per noi l’ingresso nel tunnel.
Ad Ancona il paziente uno fu Paolino Giampaoli, giornalista, oggi testimonial degli Ospedali Riuniti di Ancona. Il 28 febbraio il ricovero a Torrette nel reparto di Malattie infettive in seguito a difficoltà respiratorie, le dimissioni non arrivarono prima di 25 giorni trascorsi in isolamento. Una esperienza dura che lo ha segnato e che lo ha spinto ad avviare due aste benefiche per raccogliere fondi da devolvere al reparto che lo ha accolto e guarito. Nella prima, a maggio, ha raccolto 3mila e 300 euro, ora una nuova asta, ancora con le donazioni delle società sportive, colpite fortemente dalla pandemia.
Oggi Giampaoli sta bene, nonostante abbia qualche postumo legato all’infezione, si reputa una persona «fortunata» per essere guarita. I ricordi di quei 25 giorni però sono ancora vividi. «È una esperienza che segna, che lascia un solco nella vita – racconta – . Ricordo ancora quando ho visto la porta del reparto che si chiudeva dietro di me, ho pensato: chissà se uscirò vivo da qui».
«Nonostante il virus abbia fatto tante vittime, purtroppo le persone continuano a non capire e molti non rispettano le regole – osserva – , poi quando il virus sfiora più da vicino allora capiscono, ma basterebbe solo rispettare le regole: basterebbe che tutti indossassero la mascherina, che igienizzassero le mani e rispettassero distanze e divieto di assembramento». Un appello al senso di responsabilità.
«Basta un niente per perdere la vita, per fortuna ci sono sanitari capaci di salvarti e rimetterti in piedi», spiega, rimarcando che molto, per uscire da questa pandemia, è nelle nostre mani. Anche per questo pone l’accento sulla necessità di vaccinarsi. «Lo renderei obbligatorio, o in alternativa la soluzione è quella di una patente di immunità: chi è vaccinato ha più libertà» perché per uscire dalla pandemia serve il contributo di tutti.
Intanto prosegue l’impegno con l’asta benefica partita da pochi giorni, nella quale in palio c’è anche il cappello del ciclista filottranese Michele Scarponi, donato dalla Fondazione omonima, ma ci sono anche le maglie donate dalle società sportive, di basket, calcio e pallavolo. All’asta c’è anche la maglia della squadra di calcio dell’Atalanta, ma a questa potrebbe aggiungersi anche quella di un’altra squadra di serie A.