Ancona-Osimo

Ancona, l’ex senatore Fosco Giannini in libreria con Apokope: «Così trasformo il dialetto in poesia»

Lo scrittore anconetano: «All’inizio, pubblicavo in italiano, poi frequentando assiduamente Scataglini e altri poeti dialettali italiani, mi sono innamorato delle poesia dialettale»

Fosco Giannini (foto tratta dal profilo Fb)

ANCONA – C’è Apokope in libreria: è uscito l’ultimo lavoro di Fosco Giannini, scrittore anconetano, già senatore della Repubblica nelle file del partito comunista. Il libro di poesie verrà probabilmente presentato prossimamente non solo a Roma e Chieti, ma anche a Offagna e Ancona, nel quartiere degli Archi.

«Lì vive la mia compagna – sottolinea Fosco –, è un rione che, insieme a quello del Piano San Lazzaro, mi piace molto. Sono quartieri popolari, io vivo al Piano ed è bello vedere questo scambio di culture dovuto alla presenza di tanti stranieri. C’è una forte popolarità che mi entusiasma».

Ad entusiasmarlo sono anche le poesie, tanto che Giannini ci ha costruito il suo ultimo libro: «Ho cominciato a scrivere quando ero molto giovane, pubblicando diverse cose. All’inizio, pubblicavo in italiano, poi frequentando assiduamente Franco Scataglini e altri poeti dialettali italiani, e avendo letto tanta poesia friulana di Pasolini o quella dialettale di Loi o di Mario Brasu, beh, mi sono innamorato delle poesia dialettali».

Una delle sue opere è perfino diventata uno spettacolo di teatro, portato in scena dalla brava Tiziana Marsili Tosto. Apokope, 99 versi dorici è già nelle librerie di Ancona, Falconara, Senigallia e «tra poco in quelle di tutta Italia», fa sapere Giannini. La copertina è di Rodolfo Bersaglia, grande artista e critico d’arte, che ha contribuito, insieme a Laura Baldelli, con un disegno per una poesia operaia.

«Apokope significa amputazione, taglio, perché il dialetto anconetano, ma anche quello romano, presenta parole spesso tagliate. Questo è il senso del titolo. Il dialetto anconetano risente dell’influenza dei Dori. Lo stesso nome di Ancona (da Ankòn) deriva dal greco ˈgomitoˈ».

Ma non c’è solo il greco: le Marche hanno subìto l’influenza pure del latino. «Sono legato all’intero linguaggio dialettale, ma non mi piace stare in una gabbia semantica, uso a volte anche parole che appartengono ad altri linguaggi dialettali. La poesia è una rottura con l’ordine codificato delle cose sul piano semantico. Sono molto innamorato del dialetto anconetano».

«Qual è l’espressione dialettale a cui sono più affezionato? Beh, in alcuni paesi, verso la Vallesina, i contadini dicono “igno” per dire fuoco, che deriva chiaramente dal latino ˈignisˈ, perché lunghissimo è stato il dominio papalino della Chiesa sulle Marche».

Al libro, edito da Ventura edizioni e dedicato alle tre figlie di Giannini, hanno contribuito, oltre che Bersaglia, anche Alberto Sgalla (per la prefazione) e Carlo Formenti (per la postfazione). L’obiettivo di Giannini, ex parlamentare, è «tentare di trasformare l’anconetano in poesia senza arrendersi alla degenerazione vernacolare». Proprio nelle Marche, tra l’altro, il 14 ottobre, Giannini e alcuni di coloro che hanno collaborato al libro (tra cui Bersaglia, Baldelli e Sgalla) prenderà parte a un incontro dal titolo “L’arte racconta il lavoro“, al Palazzo del turismo, in via Oberdan 3, a Porto San Giorgio.

Fosco Giannini (foto tratta dal profilo Fb)

«Quando frequentavo Scataglini – riprende Giannini a proposito del libro – ero giovanissimo, andavo a casa sua, e tra gli anni ’70 e ’80 c’era una improvvisa proliferazione di poesia dialettale in ogni città d’Italia. E a guardare bene grandissima parte di quella proliferazione poetica in tutte le città era in realtà poesia della piccola borghesia colta, notai, impiegati e direttori di banca, primari che nulla avevano a che vedere con la cultura e la lingua del popolo. Perché la poesia dialettale può sembrare spesso un’interpretazione del popolo, un parlare al popolo. Io mi accorsi che quasi tutta quella produzione poetica meschina, di nessun valore, bruttissima, era in verità scritta dalla piccola borghesia semicolta».

«Che produceva una poesia terrificante, poiché utilizzava – spiega lo scrittore – un linguaggio dialettale molto volgare e rozzo privo di poesia, metafora, spiritualità. Che invece caratterizzano la poesia vera. Il marchingegno era questo: quel ceto semi colto in verità attribuiva al popolo un linguaggio rozzo, volgare e non poetico e dunque usava quel linguaggio, equivoco terrificante – ammonisce – pensando che quello fosse linguaggio del popolo e dunque non poetico. Sapevo già cosa non si doveva fare: la scelta della poesia dialettale è dato da questo». «Io scelgo la poesia dialettale, il linguaggio dialettale, perché per me è denso di fortissima evocazione e musicalità. Come un musicista che sceglie lo strumento da suonare facendo sempre musica, così è per la lingua e la poesia. Ma il punto è che affinché questo linguaggio diventi poesia non cada nell’equivoco in cui sono caduti quegli pseudo poeti. Si deve tentare metafora della vita, dell’amore, della sofferenza. Dialetto sì, ma puntando in alto».

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