ANCONA – «Sul fine vita, occorre dare la massima attenzione alla persona, al malato. Ognuno è diverso dall’altro ed ha diritto di chiedere quello che è giusto per lui e il medico deve fare quello che è meglio per il suo paziente». È l’auspicio da Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni che con il suo collegio legale ha assistito ‘Mario’, ‘Antonio’ e ‘Fabio’, i tre marchigiani che hanno combattuto una lunga battaglia per accedere al suicidio medicalmente assistito in Italia, sulla scia della sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-dj Fabo.
Federico Carboni (‘Mario’), morto il 16 giugno scorso, è stato il primo in Italia ad accedere al suicidio medicalmente assistito dopo una battaglia a ‘colpi’ diffide all’Asur. Carboni è stato tetraplegico per 12 anni, in seguito ad un incidente stradale, mentre Fabio Ridolfi ha finito per ricorrere alla sedazione profonda per porre fine ad una sofferenza durata 18 anni, ed è deceduto il 13 giugno. Antonio invece, tetraplegico da otto anni, ha avuto il riconoscimento del possesso dei requisiti per accedere al suicidio medicalmente assistito, come da parere positivo del Cerm (comitato etico regionale), attende però l’indicazione del farmaco, come aveva fatto sapere l’Associazione Luca Coscioni, in una recente nota stampa.
«Federico Carboni è rientrato nei requisiti previsti dalla sentenza della Corte Costituzionale sul caso Cappato-dj Fabo, mentre per Fabio l’attesa sarebbe stata troppo lunga ed è morto in sedazione profonda dopo aver rifiutato nutrizione ed idratazione, la stessa sorte di mio marito» osserva Mina Welby, moglie di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare, antesignano in Italia della battaglia per l’eutanasia legale e per il diritto al rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Impegnata da anni per il riconoscimento di una legge che tuteli e disciplini il fine vita e che restituisca dignità alla vita di queste persone, immobilizzate ad un letto, Welby evidenzia che in Italia «c’è difficoltà ad arrivare ad una legge che regolamenti il fine vita: l’anno scorso avevamo promosso una raccolta firme per cambiare l’articolo 579 del codice Rocco, che prevede il reato di omicidio del consenziente, per i medici che aiutano questi pazienti che chiedono di morire. Ci è stato anche negato il referendum».
Una questione di «dignità» per Mina Welby, secondo la quale «bisogna cercare in ogni modo possibile di migliorare la vita di queste persone e quando chiedono di morire perché non riescono più a sopportare le loro sofferenze, occorre aiutarli a lasciare questa vita: è un dovere politico, oltre che sociale».
Secondo la co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, «serve un nuovo sistema di welfare, che dia un sostegno alle famiglie le quali non possono essere lasciate sole. Occorre fare tutto quanto in nostro potere per dare umanità a queste persone, anche attraverso le cure per il dolore, che possono offrire sollievo dalle sofferenze fisiche e psicologiche».
Oltre all’importanza del medico di famiglia quale figura chiave nell’accompagnare chi vuole accedere alla terapia del dolore e al fine vita, «serve una maggiore coesione sociale attorno a queste famiglie: nelle grandi città spesso non ci si conosce con i vicini di pianerottolo, per questo affermo che occorre dare più attenzione a chi ci circonda».
Secondo Welby, serve «una buona politica e servono eventi di sensibilizzazione, specie tra le giovani generazioni» perché si sa che la sensibilità e l’umanità sono semi che possono ‘germogliare’ al meglio tanto più precocemente si seminano.
«La sentenza della Corte Costituzionale – conclude – poteva essere migliorata dall’ultimo parlamento, invece non è stato fatto niente».