ANCONA – Ospedali strapieni, strade deserte, disinfettanti e mascherine introvabili. Chi non ricorda le fasi più drammatiche della pandemia di Covid-19? Ma se c’è una data simbolo che ha fatto capire pienamente a tutti noi italiani la gravità di quanto stava accadendo, quella è sicuramente il 18 marzo del 2020, quando i mezzi militari a Bergamo trasportavano le vittime uccise da virus di cui allora si sapeva ben poco.
Un anno dopo la data del 18 marzo è stata scelta per ricordare chi ha perso la vita a causa del Sars-Cov-2, più conosciuto come Covid-19. E anche oggi, trascorsi tre anni dall’inizio dell’incubo, nella Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid, questo ricordo è sempre vivido nella memoria di tutti noi, come lo sono le immagini delle bare in fila a Bergamo e quelle degli ospedali in affanno nel tentativo di dare una risposta all’ondata di contagi che hanno causato le terribili polmoniti da Covid, in una fase in cui vaccini e terapie erano solo un miraggio.
«Ricordo la preoccupazione per un virus ignoto, ma anche la tanta determinazione da parte di tutti noi sanitari – dice il professor Abele Donati, direttore della Clinica di Rianimazione dell’Azienda ospedaliero universitaria delle Marche – si affrontava la situazione cercando di dare le risposte migliori per i pazienti, senza eccessive preoccupazioni per la propria salute, ma ricordo anche ad un certo punto il vuoto di energie. La seconda e la terza ondata sono state le peggiori – spiega – perché eravamo veramente stanchi».
C’è un caso che l’ha colpita in maniera particolare? «Si. Mi ricordo in particolare di un paziente che era rimasto ricoverato da noi per otto mesi. Aveva ricevuto tre cicli di Ecmo (ossigenazione extra corporea, ndr) e per ben tre volte siamo riusciti a salvarlo in extremis. Ora si sta riprendendo e proprio qualche settimana fa è passato in ospedale per salutarci. Ci ha ringraziato ed è contento per come sono andate le cose».
Tra i primi ricordi del professor Andrea Giacometti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’Azienda ospedaliero universitaria delle Marche, c’è «l’arrivo dei primi pazienti» affetti dal virus. «Ricordo le difficoltà in Italia nel reperire mascherine, guanti, camici, noi sanitari avevamo l’obbligo di indossare i dispositivi di sicurezza che comprendevano anche i copri scarpe, ma nei primi tempi era difficile reperire questi dispositivi perché gli ospedali facevano incetta e sul mercato si esaurivano».
Nelle fasi più buie dell’emergenza sanitaria, quando del virus si sapeva ancora poco, Giacometti ricorda anche che «ogni giorno quando andavo al lavoro, anche durante la fase di lockdown, non sapevo se la sera avrei fatto ritorno a casa: e avessi iniziato ad avere la febbre sarei rimasto in ospedale, anche nel mio studio, per non contagiare i miei familiari. Oggi penso che chi è sopravvissuto è stato fortunato. La situazione adesso è cambiata e in reparto abbiamo al massimo 1-3 casi, ma che non richiedono più di essere visti dai rianimatori, tranne magari qualche caso di anziano 90enne con polmonite da Covid».
Cosa ci ha insegnato la pandemia? «Forse la cosa più importante che ci ha insegnato è che l’uomo sta rovinando il Pianeta: questi virus provengono da altri eco sistemi che l’uomo è andato a rovinare, facendo emergere, virus, batteri, patogeni e malattie nascoste che trovano in noi un nuovo ospite. Poi ci ha insegnato anche che dovremmo essere sempre aggiornati sui protocolli di emergenza e pandemia che dovrebbero essere stilati a livello nazionale, magari riadattandoli alle realtà locali».
Il virus secondo il professor Giacometti «ci ha insegnato anche che siamo creature fragili, ci sembra di dominare tutto, ma non è così. Non solo terremoti e inondazioni, anche questi eventi ci fanno capire che dobbiamo essere più umili e rispettosi del Pianeta».