ANCONA – «Passeggiando in bicicletta accanto a te. Pedalare senza fretta la domenica mattina». E chissà se Cecilia e Luca, entrambi anconetani (lei di 32 anni, lui di 36), avevano la «faccia rossa» che canta Riccardo Cocciante in uno dei suoi successi, ˊIn biciclettaˊ, appunto.
I due hanno deciso di partire da Ancona per un viaggio a pedali durato 5 mesi. In sella alle loro bici, hanno percorso 5mila chilometri, toccando Croazia, Slovenia, Montenegro, Albania, Grecia, Turchia e Georgia.
«Abbiamo deciso di licenziarci e di prendere una pausa temporanea dal lavoro, dopo esserci confrontati con la limitatezza del tempo e della vita», racconta Pignocchi, regista – tra l’altro – del cortometraggio ˊGrottaroliˊ, girato al Passetto qualche anno fa.
Una scelta coraggiosa…
«Siamo stati fortunati, non tutti possono fare questa scelta, per svariati motivi. Uno dei quali è il passaporto, un pezzo di carta che viene dato per scontato, ma che è emblema del privilegio occidentale di poter viaggiare più o meno ovunque».
Com’è scattata l’idea?
«Dopo aver letto “Four Thousand Weeks: Time Management for Mortals”, di Oliver Burkeman, ho iniziato a sentire una certa urgenza nel dare la priorità a un sogno – un lungo viaggio – che ho da sempre e che negli anni ho accantonato per concentrarmi sul mio lavoro».
Prosegua…
«Quattro mila settimane sono il tempo che una persona media ha sulla Terra, un dato che ha sicuramente rimesso in prospettiva le cose. Nel pieno delle nostre carriere, abbiamo deciso di lasciare i nostri posti sicuri e fermare la ruota che gira inesorabile».
Ripercorriamo il viaggio…
«Siamo partiti da Ancona la mattina del primo maggio e abbiamo iniziato a pedalare verso Trieste continuando a seguire la costa, attraversando Slovenia, Croazia, Montenegro, Albania e Grecia fino ad Atene. Da Atene abbiamo preso un traghetto per Kalymnos, isola nell’Egeo, paradiso dell’arrampicata sportiva. Dopo due settimane di arrampicata ci siamo imbarcati e siamo approdati a Bodrum. È cominciata da lì l’infinita traversata della Turchia in diagonale, per poi arrivare in Georgia fino alle montagne del Caucaso».
Quindi, Mar Nero…
«Sì, fino al confine con la Turchia. Da questo momento è iniziato il viaggio di ritorno via terra, senza aerei. Dopo 20 ore di autobus per Istanbul, abbiamo pedalato verso Salonicco e con un altro bus abbiamo raggiunto Igoumenitsa, dove ci siamo imbarcati per Brindisi e lentamente abbiamo seguito la costa pedalando fino ad Ancona».
Se dico tempo?
«Lui continuava a volare come al suo solito e questa decisione che sembrava così ardua da prendere è diventata quasi nulla rispetto al grande schema del tempo e della vita».
Dove alloggiavate?
«Abbiamo dormito la maggior parte del tempo in tenda, altrimenti in case, hotel o ostelli. Abbiamo principalmente cucinato con il nostro fornello, più o meno sempre le stesse cose, pasta, zuppa di lenticchie, fagioli, ceci, panini, frutta, ogni tanto kebab. A colazione l’avena. Qualche volta un gelato per risollevarci d’animo (ride, ndr). Eravamo autonomi avevamo tutto il necessario per dormire e cucinare, ogni sera era importante trovare il posto giusto con una fonte d’acqua, un lago, un fiume o una semplice fontana. In mancanza di una fonte d’acqua riempivamo diverse bottiglie per essere autonomi. La doccia, per esempio, non era la priorità in mancanza di una fonte».
Emozioni e momenti difficili?
«La mattina sentivo una grande energia appena sveglia. Ero già all’aperto, non circondata dalle quattro mura domestiche che generalmente la bloccano. Dopo aver impacchettato tutto nelle borse, lasciando il luogo in cui avevamo dormito, la prima pedalata provocava in me una sensazione di grande leggerezza e libertà. Noi due, strade deserte a viverci finalmente la mattina, la parte della giornata più bella dove ti senti viva. Abbiamo provato tutto lo spettro delle emozioni: irritabilità per la fame, rabbia per il caldo torrido, gioia per l’incontro con un essere umano che vuole aiutarti, paura per l’agguato di un cane, estasi per la discesa, ma poi quasi sempre, non appena il sole iniziava a calare, la brezza a diventare più fresca e la strada a tingersi d’oro. Ecco che quella sensazione di leggerezza e libertà tornavano a regalarmi di nuovo tanta energia».
E la fatica?
«Senza la fatica la mia idea di viaggio, che sognavo sin da bambina, non si sarebbe mai materializzata. La fatica è stata la chiave per vivere quello che per anni ho cercato, ma che non avevo ancora mai trovato. Qualche anno fa, camminando sola per 10 giorni, avevo intuito che la fatica fosse fondamentale, ma ora è davvero chiaro. Ho sempre fantasticato sui viaggi del passato, i viaggi antichi. Quando il concetto di turismo non esisteva ancora. Mi immagino viaggi difficili, spostamenti nomadi di uomini, animali e merci in paesaggi incontaminati. Viaggi faticosi, rischiosi ma anche ricchi di incontri e dell’ospitalità umana più pura».
Cosa ha imparato?
«Che la maggior parte degli esseri umani vuole aiutarti e non farti del male e che la bicicletta è il miglior mezzo per rompere le grandi barriere della paura. Ma anche che la gentilezza è contagiosa e crea un’energia in grado di caricarti. I turchi, poi, sono il popolo più ospitale che abbiamo incontrato. L’ospitalità è sacra e viene vissuta nel più puro ed elevato significato del termine. Mi porto dietro un insegnamento: è fondamentale ascoltare il proprio istinto, le informazioni che arrivano dalla pancia sono tanto importanti quanto quelle che arrivano dal cervello».