ANCONA – «In piazza per un dovere verso la popolazione italiana di informare sui fatti veri del Medioriente». Mohamed Nour Dachan, imam e presidente della comunità islamica di Ancona e provincia, ieri (27 ottobre) era seduto a due passi dalla Fontana dei Cavalli contornato da bandiere, da stendardi palestinesi e da scritte inneggianti la pace.
In tanti si sono fermati (e soffermati) a leggere i cartelli esposti davanti a lui: «Agli anconetani, vorrei dire di stare attenti a quanto sta accadendo, alla disinformazione e ai mezzi di informazione nazionali – riflette l’imam Dachan – La situazione, in Medioriente, è drammatica».
Asmae Dachan, giornalista, è invece in contatto con chi, le bombe, le vive tutti i giorni sopra la propria testa: «La situazione umanitaria è preoccupante e drammatica, uno scenario devastante di milioni di persone sfollate, migliaia di persone che muoiono, bambini che rimangono orfani o traumatizzati dalle violenze che vedono. L’altra cosa per cui siamo in piazza oggi è il desiderio di dire che non possiamo fingere di non vedere. Abbiamo uno strumento importante, che è quello del dialogo, della parola. Ecco – commenta Dachan – continuiamo a parlarne, a sensibilizzare e a chiedere a chi ha potere decisionale di intervenire per frenare le violenze e per lenire la crisi umanitaria».
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E ancora: «In Libano e in Palestina, ho colleghi e amici – continua Dachan, che vive ad Ancona – Di cosa hanno bisogno? Di vita. Sembra un concetto astratto, ma in realtà hanno bisogno e voglia di vivere, di respirare, di svegliarsi la mattina, accarezzare i loro figli, andare a lavoro. Hanno bisogno che il mondo guardi nella loro direzione e dica che non è né normale né giusto che accada tutto questo».
Ai banchetti di piazza Roma, sorvegliati a vista dagli agenti in uniforme e in borghese della polizia di Stato della questura di Ancona (per ovvie ragioni di sicurezza), si ferma anche il signor Haris, originario di Sarajevo.
Anche lui conosce bene gli orrori della guerra: per quattro anni, ci racconta, «ho combattuto come militare». Haris, di anni, quando scoppiò quello che passerà alla storia come il più lungo assedio della storia bellica della fine del XX secolo (dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996), di anni ne aveva soltanto 18. Lo arruolarono nell’esercito, doveva difendere la propria patria.
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«Io dico sempre che tutto è possibile – commenta Haris – Ero un ragazzino, vivevo in una città multiculturale. Come tutti i 18enni, avevo voglia di vivere in modo normale, di andare a scuola, di studiare, di uscire con gli amici. E invece, dall’oggi al domani, è arrivata la guerra. Cosa ricordo di quei momenti? Che ogni volta che arrivava un convoglio umanitario, ad esempio, speravo che venisse nella mia direzione. Mi auguravo che fosse qualcosa per me, per noi».