ANCONA – Immancabili nel cestino del picnic del primo maggio, le fave sono l’alimento simbolo della festa dei lavoratori. Nelle Marche non manca neanche la frittata con i carciofi.
Esistono, per queste due varietà, produzioni di eccellenza, tutelate da presidio Slowfood, che spinge il turismo verso località meno note. Uno di questi è la fava di Fratte Rosa, che prende il nome dal piccolo paese dell’entroterra pesarese, dove alcuni agricoltori hanno recuperato questa varietà.
La fava di Fratte Rosa, una produzione di nicchia, viene coltivata sui “lubachi”, terreni ricchi di argilla bianca caratteristici del territorio. Il piccolo paese, è noto dall’epoca romana per la coltivazione delle fave e per la produzione di terrecotte. I contadini del posto nel corso dei secoli hanno selezionato un ecotipo di questo legume, a baccello corto e dal gusto dolce.
Rodolfo Rosatelli presidente dell’Associazione Favette di Fratte Rosa e titolare dell’azienda agricola I Lubachi ci racconta che il presidio, ottenuto nel 2018, nasce dal «recupero varietale» condotto attraverso un progetto con alcuni anziani del posto. «Da un pugno si semi, con l’Istituto sperimentale di Monsampolo del Tronto e l’Assam, siamo riusciti a recuperare questa varietà caratteristica – spiega – e oggi siamo sette agricoltori a portare avanti questa produzione di nicchia».
Nelle Marche la fava viene cucinata “in porchetta”, ovvero cotta in pentola con finocchietto selvatico e pancetta, ma a Fratte Rosa la tradizione vuole che dalla fava si realizzi il “taccone”, una pasta prodotta con farina di fave ottenuta dalla macinatura del prodotto secco, impastata con farina di grano.
«Qui – spiega – si è conservata la tradizione di impastare farina di fave e farina di grano, una usanza che non si riscontra in altre zone». Ma le fave di Fratte Rosa, una vera ghiottoneria e fiore all’occhiello fra le tipicità marchigiane, si consumano anche secche decorticate, ad esempio nelle zuppe, nei sughi, mentre il prodotto fresco si aggiunge nelle insalate o viene trasformato in paté di fave, che immancabilmente trova spazio nella valigia di qualche turista di rientro a casa dalle vacanze.
«Il turismo enogastronomico va per la maggiore in questo periodo – osserva – e in questi ultimi tempi c’è stata una rivalutazione dei legumi, delle farine alternative. Sicuramente il presidio fa splendere il nostro paese di una luce diversa e ci apre anche oltre i confini marchigiani».
Dal gusto saporito e molto dolce, il carciofo di Montelupone, per dirla alla maceratese “scarciofeno”, è tutelato da un presidio Slowfood. Si tratta di una varietà coltivata nelle campagne del piccolo comune del maceratese a 250 metri sul livello del mare. Qui i contadini coltivavano i due ecotipi di questa varietà di carciofo, principalmente per il consumo familiare, in questo modo ne hanno preservato la biodiversità locale. Le due varietà sono la precoce, che si caratterizza per le foglie non seghettate, e quella dalle foglie più seghettate.
A causa di una resa più bassa della media, 5,5 tonnellate per ettaro, mentre il romanesco arriva a 10 tonnellate, questa varietà, nonostante l’altissima qualità, è conosciuta solo a livello locale. I produttori del presidio, si sono riuniti nell’associazione “Produttori del Carciofo di Montelupone” che si è dotata di un disciplinare, che prevede il divieto dell’uso di concimi e diserbanti chimici di sintesi, di ormoni e di altri stimolanti della crescita.
A raccontarci come si consuma questa specialità, anch’essa presente nel picnic tradizionale dei marchigiani, è Leonardo Marotta responsabile educazione Slow Food Loreto Valmusone. Il carciofo di Montelupone è protagonista di molti piatti tipici nelle Marche, uno su tutti i carciofi “in porchetta”, cucinati in padella interi, con finocchio selvatico e foglie di aglio fresche.
Un’altra ricetta caratteristica è quella delle tagliatelle ai carciofi e dei carciofi alla giudìa. I capolini più piccoli vengono invece scottati e messi sott’olio. Ma nei picnic del primo maggio, spesso si può trovare la frittata ai carciofi.