ANCONA – Ci vuole coraggio per piacersi, non sempre è facile. Ti guardi allo specchio e non vedi il corpo che vorresti. Vomiti il cibo ancora prima di mangiarlo, racconti bugie per declinare inviti a pranzo e cene fuori. Entri in un vortice che ti risucchia negli abissi di un dolore che in pochi capiscono.
E ti ritrovi da sola, lontana da affetti e famiglia, amici e parenti. Ma soprattutto lontana da quel benessere che scaraventi nel water e poi tiri lo sciacquone. Fa troppo male mangiare della carne, è troppo dolorosa quella pasta al ragù sul tavolo di casa. E poi c’è da vincere la tua sfida, quella che ti fa restare in bilico sul filo sottile della vita, ma ti avvicina sempre più alla morte: «L’obiettivo giornaliero era riuscire a non toccare cibo. È come un delirio di onnipotenza, ma si chiama anoressia ed è una malattia».
La storia di Costanza Mignanelli è diventata un libro, si chiama “Il coraggio di piacersi”. Il racconto, edito da Amazon, Costanza, marchigiana di Ancona, l’ha terminato e pubblicato qualche giorno fa. «In tanti mi stanno chiedendo di fare un incontro e io ci sto pensando – dice lei – Faceva troppo male scrivere un libro, ma poi è successo».
Costanza, cominciamo dalla fine. È stata dura mettere su carta la sua storia?
«Sì, ho iniziato a scrivere il libro immediatamente dopo il ricovero in ospedale, ma poi mi sono bloccata. La svolta è arrivata qualche mese fa. Ho partecipato a un incontro sui disturbi alimentari al Salesi e mi sono detta che dovevo fare qualcosa. L’ho ripreso in mano da poco e l’ho terminato tra ferie e trasloco (ride, ndr)».
Lei si occupa di pubbliche relazioni. Che ruolo ha avuto il lavoro nell’anoressia?
«Mi ha aiutato molto ad allontanare i pensieri ossessivi che facevo. Al mio datore, devo tanto».
So che è difficile, ma ripercorriamo la sua malattia…
«Ho iniziato a soffrire di anoressia intorno ai 20 anni, relativamente tardi rispetto ad oggi, ma già dall’adolescenza non mi piacevo. Ho sempre fatto danza e vedevo ragazze più belle e magre di me. Avevo dei continui up e down, che sono durati a lungo. Ma gli ultimi cinque anni sono stati i più tosti, un lungo periodo di tormento. Poi, il 27 dicembre 2015 inizia il momento più difficile della mia vita».
Cioè?
«Il ricovero in ospedale, quello che mi segna e che, appunto, mi porta a scrivere il libro».
Prosegua…
«Non riuscivo più ad uscire da questa malattia. Tu pensi di controllarla, ma lei ti mangia dentro. È una sorta di delirio di onnipotenza. Credi di poter controllare la tua vita, le tue emozioni, le tue sensazioni, ma non è così».
Vada avanti…
«Faccio un anno a Milano, dove frequento un master, ma la situazione stava precipitando. Raggiungo un peso molto basso e continuo ad avere una serie di disturbi legati alla mia mente».
In che senso?
«Sentivo odori forti e profumi cattivi mentre mangiavo. Erano sensazioni che venivano ingigantite dalla mia testa. Avevo lo stomaco sotto sopra e bruciori continui, con capo giri a non finire. Insomma, non riuscivo a sopravvivere bene o a passare una giornata senza malessere. Erano mesi in cui non mi svegliavo sana, non ero serena. Sono stati cinque anni durissimi, prima la malattia era altalenante. Ad avermi aiutato, grazie al cielo, è stata la mia condizione di salute ottimale. Pensi che i miei genitori mi raccontavano che dopo la nascita il ginecologo mi portava in giro per i reparti, tanto ero in salute».
Il 27 dicembre del 2015, il ricovero in endocrinologia, a Torrette…
«Esatto. Sa, allora non c’era il reparto di disturbi alimentari. Ero immersa nell’acqua di un mare che continuava a risucchiarmi. È qualcosa di indomabile finché non ti dai una spinta per risollevarti».
E lei il coraggio di quella spinta l’ha trovato…
«Sì, parte tutto da te, è vero, ma nessuno si salva da solo. Così, a dicembre, ho chiesto aiuto alla famiglia e mi sono fatta aiutare. Ho fatto due settimane in ospedale in down totale, l’esperienza più brutta della mia vita. Che però mi ha permesso di uscire da quel loop, mangiando. Sono entrata che non mangiavo e dopo due giorni ho reagito, spaventata dal sondino».
Quali erano le opzioni?
«Il sondino o la morte».
E lei ha scelto la terza via, quella della vita…
«La vita è bellissima, è piena di emozioni e riserva così tante sorprese che non vale la pena di lasciarci mangiare da una malattia. Vede, tutto il bello che sto vivendo oggi mi arriva adesso che sono in equilibrio con me stessa e non prima, quando pensavo di controllare tutto. La felicità non si controlla, arriva quando meno te lo aspetti e quando sei più predisposto».
Come sta ora?
«Ho raggiunto un compromesso con me stessa. Due anni di psicoterapia mi hanno aiutato molto. Se ora ho dei momenti di difficoltà (come tutti), gli strumenti per affrontarli li trovo dentro di me».
Quindi, è guarita…
«Non si guarisce mai definitivamente. L’anoressia l’ho salutata e nel libro le ho anche dedicato una lettera. Io quella malattia non voglio più rivederla e ora è diventata un punto debole, una delle tante debolezze che ognuno di noi ha. Però, la cicatrice resta e ti accompagna per sempre».
Come la spiega a chi non ci è passato?
«L’anoressia non parte mai da un fatto estetico, prescinde dalla tua immagine allo specchio. È una richiesta di attenzione, una mancanza di amore. Non è mai eccesso, è – appunto – mancanza. E tu giochi in difesa, cercando fuori ciò che non trovi dentro di te, autostima e amore proprio».
Cosa dice a chi soffre di disturbi alimentari?
«Di riconoscere il problema e di lasciarvi aiutare. Non rifiutate l’aiuto, vi prego. Una ragazza che conoscevo è morta a 14 anni. È morta perché non ha voluto essere aiutata. Ecco, allontaniamoci dalle immagini che ci danno i social e il mondo dei media. Quello è un mondo di plastica, in cui si punta all’aspetto estetico. E mi creda, io sono un’esteta, ma la bellezza che cerco oggi è quella in cui il fuori rispecchi il dentro. Invece, spesso, c’è un bel contenitore e non ci si cura del contenuto. Nel tempo, ciò che ci porta a vivere bene è quanto si coltiva dentro. Il corpo va curato, ma non deve essere un’ossessione. Deve soltanto essere strumento per valorizzare il contenuto, che è l’anima».
Il peso più basso che ha raggiunto?
«45 chili».
Saltava i pasti?
«Sì, se potevo nascondevo il cibo. E declinavo ogni invito a pranzo o cena fuori. Ti allontani da tutti, dagli affetti, dagli amici, dalla famiglia».
E oggi si sente bella?
«No, però sono arrivata a un compromesso: di me, migliorerei tante cose, ma ho la salute e tutto ciò che serve, non ho bisogno d’altro. È questo il coraggio di piacersi».