ANCONA – Sono 34 i migranti sbarcati oggi al porto di Ancona dalla nave Life Support di Emergency. I naufraghi erano stati salvati il 12 dicembre in acque internazionali nella zona della Sar Libica, mentre si trovavano a bordo di un gommone. A coordinare la rodata macchina dell’accoglienza è stata la Prefettura di Ancona. La nave è approdata alla banchina 19 dello scalo dorico.
I 34 migranti, tutti uomini, insieme a due minori stranieri non accompagnati, erano partiti dalle coste libiche e provengono da Afghanistan Pakistan e Sudan. Dopo le operazioni di identificazione che si sono svolte nel centro sportivo Paolinelli di Ancona, tutti i migranti sono stati accolti nelle strutture di accoglienza delle Marche.
«Molte delle persone soccorse fuggono da conflitti che impediscono loro di rimanere nel proprio Paese – dichiara in una nota stampa di Emergency Chiara Picciocchi, mediatrice culturale a bordo della Life Support -. Un ragazzo del Pakistan ci ha raccontato che viveva in una zona dove ci sono molti conflitti e c’è una fortissima povertà, motivi che lo hanno spinto a intraprendere il viaggio verso l’Europa. Una volta arrivato in Libia ha tentato la traversata del Mediterraneo due volte, la prima volta è stato intercettato e portato indietro dalla cosiddetta Guardia costiera tunisina, ma è riuscito a tornare in Libia e a tentare una seconda traversata. Questa volta è stato soccorso dalla Life Support, ora il suo desiderio è vivere in Italia, trovare lavoro e farsi raggiungere dalla sua famiglia».
«Vengo da Parachinar, in Pakistan, una città al confine con l’Afghanistan – ha spiegato un ragazzo di 23 anni a bordo -. Negli ultimi anni la mia città è stata bersaglio di molti attacchi terroristici, non è un luogo sicuro dove vivere. Le scuole sono chiuse, gli ospedali non hanno gli strumenti per operare, c’è solo una strada che collega la città con il resto del Paese e viene spesso bloccata, fermando quindi l’arrivo di viveri e scorte mediche anche per settimane. Per me – è il suo racconto – era impossibile vivere così, non mi sentivo al sicuro, dovevo andarmene. All’università ho studiato optometria ma non riuscivo a trovare lavoro, non riuscivo a sostenere la mia famiglia, anche per questo ho deciso di partire. Ho lasciato il Pakistan 4 mesi fa e da lì sono andato prima a Dubai e poi in Egitto, infine ho preso un aereo per Bengasi, in Libia, dove mi aspettavano delle persone in macchina – prosegue -. Mi hanno portato a Tripoli, ma nei tre mesi che ho passato in Libia ho cambiato molte città. I trafficanti con cui ero ci picchiavano e ci facevano mangiare solo un pezzo di pane al giorno con un po’ di acqua. La prima volta che abbiamo provato ad attraversare il mare, un drone delle milizie libiche ci ha trovati prima che salissimo sulla barca e siamo dovuti scappare via perché sarebbero venuti a prenderci. Dopo abbiamo aspettato ancora un mese, questa è la seconda volta che ho provato a fare il viaggio».
«Quando abbiamo pagato, in Pakistan, ci avevano promesso una bella barca, dotazioni di sicurezza e attrezzatura per navigare. Invece – ha spiegato inoltre – quando siamo arrivati in spiaggia abbiamo visto che avremmo fatto il viaggio su un piccolo gommone, senza giubbotti salvagente, con pochissimo cibo e solo 5 bottiglie d’acqua per più di 30 persone. Non volevamo salire: era troppo pericoloso, eravamo in troppi e la barca era troppo piccola, ma i libici ci hanno costretti a farlo. Per fortuna ci avete trovati, non so quanto avremmo resistito senza il vostro aiuto».