È trascorso un anno dall’attacco nel sud di Israele. Era l’alba del 7 ottobre 2023, quando un gruppo di miliziani di Hamas e di altri gruppi terroristici attraversarono le barriere che separano la Striscia di Gaza da Israele e sferrarono un attacco senza precedenti, nel quale persero la vita civili uccisi nelle loro case nei kibbutz e giovani che partecipavano ad una manifestazione musicale. Quasi 1.200 le vittime, fra quali anche dei bambini e 250 gli ostaggi.
Da quel punto di rottura, la crisi in Medio Oriente non si è più fermata, in un conflitto che sembra non finire mai. I miliziani filo iraniani in Libano, Siria, Iraq e Yemen, che appoggiano Hamas, lanciano razzi contro Israele, mentre gli houthy dello Yemen prendono di mira le navi dell’Occidente che attraversano il Mar Rosso. Ad agosto finiscono in fumo anche le ultime trattative per arrivare ad un cessate il fuoco, e la crisi in Medio Oriente registra una ulteriore escalation: il 17 settembre scorso in Libano esplodono i cercapersone utilizzati dagli Hezbollah, causando 11 vittime un attacco sferrato da Israele. Il 27 settenbre nel corso di un attacco lanciato da Israele a Beirut il leader degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, viene ucciso.
Quella israelo-palestinese «è una questione annosa, complicatissima – ricorda il sociologo dei processi economici dell’Università Politecnica delle Marche, Francesco Orazi -; è uno dei grandi nodi storici, a seguito dell’assetto che si è venuto a creare con la seconda guerra mondiale». Cosa è cambiato in questo anno? «Il fronte della guerra che avevamo in Europa, quella fra Russia ed Ucraina, si è allargato in Medio Oriente», spiega il professore della Politecnica, evidenziando che il Medio Oriente è un fronte caldo ormai da anni.
«Quest’area – osserva – è ormai quasi stabilmente interessata da conflitti e divisioni, tra Stati e confessioni religiose. Il mondo mussulmano è costituito da tante diversità culturali e di natura confessionale che si sono contrapposte anche politicamente. Il vero grande tema – spiega – è cosa ne sarà della situazione tra Iran e Israele, una questione che incendierebbe quasi totalmente il Medio Oriente».
«Fatto salvo il diritto di Israele di difendersi dall’attacco, quella attualmente in corso è una guerra che non ha stabilito regole di ingaggio, basta pensare ai cercapersone fatti saltare in Libano a metà settembre. In quello scacchiere internazionale – prosegue – storicamente hanno avuto voce in capitolo Russia e Cina, che invece nell’ultimo anno sono rimaste in silenzio, senza fare battaglie per difendere i palestinesi rispetto agli israeliani o agli sciiti. La sensazione è che le grandi potenze non contemplino l’ipotesi di una sconfitta di Israele, anche in virtù della sua potenza militare».
Dal punto di vista dei riflessi economici l’incognita è rappresentata dagli insediamenti petroliferi e da quelli nucleari iraniani: «In caso di attacco all’Iran le conseguenze economiche andrebbero a riveberarsi sui costi energetici e ne risentirebbe il commercio internazionale. Le conseguenze potrebbero essere anche molto gravi, ma al momento, la crisi in Medio Oriente sembra essere meno impattante rispetto alle conseguenze legate alle sanzioni imposte alla Russia a seguito del conflitto con l’Ucraina, che pesano ancora oggi sulle imprese, specie su quelle marchigiane».
Una guerra aperta con l’Iran, conclude il docente della Politecnica, «è uno scenario che tutti cercano di scongiurare dagli Stati Uniti alla Russia fino alla Cina e allo stesso Iran, con la cintura della resistenza sciita. La sensazione è che Israele sia conscio, però, del fatto che per molti Stati arabi sunniti un depotenziamento importante dell’Iran non sia visto di cattivo occhio».