ANCONA – Come fai a non sapere la storia dei cappelli marchigiani? È un pezzo di tradizione che passa da steli di paglia più lunghi del normale, da vecchi contadini chinati sui campi e dalle loro mogli impegnate a realizzare copricapi.
Di tutto questo (e molto altro) abbiamo parlato con Alice Catena, anconetana di Osimo, «anche se – precisa lei – attualmente vivo a Numana». Tra l’altro, l’abbiamo vista di recente su Rai1, dove è stata intervistata dai conduttori del programma Linea verde estate.
Da qualche anno, Catena si è lanciata nella realizzazione e nel commercio di cappelli di paglia, rigorosamente made in Marche. Che poi, a dire il vero, lei proviene da tutt’altro settore, dato che la famiglia ha un’azienda operante nel settore edilizio.
«Questa è una passione tutta mia, nata ormai 5 o 6 anni fa. Io sono sempre stata un’amante di cappelli. Li compravo ovunque mi trovassi. E qualche anno fa, ho partecipato all’ultima rievocazione storica di Montappone. Lì, le signore dedicavano un weekend alla loro tradizione popolare, la storia dell’intreccio del cappello di paglia».
Catena, evidentemente, rimase colpita ed «essendo l’ultima rievocazione storica mi è presa della malinconia. Ho pensato che una tradizione così interessante non dovesse perdersi. Ho così iniziato a indagare – spiega l’imprenditrice – a frequentare le signore di Montappone e a visitare i musei di Montappone e di Massa Fermana, individuando i modelli storici della tradizione delle Marche e realizzando i primi prototipi per gioco, per me e per le mie amiche. Da lì, ne è nato un marchio, ˈmontegallo Alice Catenaˈ».
I suoi cappelli sono «commercializzati in parecchi paesi al mondo, una trentina, sia in Italia sia all’estero. E vengono venduti tramite boutique internazionali o online». Quanto tempo per un cappello? «Non è quantificabile – riflette –. Parte tutto dalla raccolta della paglia, dallo stiraggio, dalla pulizia e dall’intreccio e dalla realizzazione del copri capo».
Copri capi fatti con un processo che richiede l’ausilio di «macchinari non industriali ma artigianali, quindi è cucito interamente a mano. Un processo lungo e laborioso che va fatto da mani abili e esperte di cui le Marche, per fortuna, sono piene. Questa tradizione deve continuare – sottolinea Catena – il racconto che va conosciuto e tramandato e più gente dovrebbe indossare cappelli».
Ad essere utilizzato è il grano Jervicella, con uno stelo più lungo che rende dunque più facile l’intreccio. E a proposito di grano, «l’incremento dei costi delle materie prime, utenze comprese, si riflettono inevitabilmente sul prezzo del prodotto finale».
Ma a parte i costi, il cappello di paglia – per tornare alla storia – è associato da sempre all’estate e nasce proprio in termini stagionali, dato che «veniva dato agli uomini che lavoravano i campi affinché fossero riparati dal sole. Le mogli, le signore li facevano quindi per una funzione tecnica. Ma storicamente il cappello è un elemento ornamentale nella storia del costume. I grandi generali militari erano riconoscibili dal cappello, così come i famosi personaggi del cinema. E assolve anche una funzione di salute. Infatti, portare i cappelli ripara dai danni del sole estivo, mentre d’inverno ripara e protegge dal freddo e dalle varie malattie respiratorie».
I cappelli sono da sempre sulle passerelle dell’alta moda, in virtù del fatto che i copri capi sono uno degli accessori per eccellenza che contribuiscono alla bellezza maschile e femminile, però grazie a Catena ora, sulle passerelle, c’è anche un pezzettino di storia marchigiana: «La mia speranza è che chi ancora non conosce la nostra regione si incuriosisca e la scopra».