ANCONA – Il Coronavirus miete più vittime fra gli uomini. È quanto emerge dal report dell’Istituto Superiore di Sanità sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi al Covid-19 in Italia.
Negli uomini la letalità risulta più alta rispetto che nelle donne, il 7,2% contro il 4,1% di quella femminile. Una differenza che aumenta progressivamente nella fascia di età compresa fra 70 e 79 anni, mentre oltre i 90 anni il trend si inverte e i decessi sono più frequenti fra le donne. L’indice di letalità è del 5,8%, mentre l’età media dei pazienti deceduti e positivi a Covid-19 è di 80 anni, più alta di circa 15 anni rispetto ai positivi, il 28,4% sono donne.
«Si potrebbe pensare che il sesso femminile abbia comunque una aspettativa di vita superiore a quella dei maschi (meno comorbilità), per cui già in parte può essere spiegata la differenza fra l’età dei deceduti per Covid-19 – spiega il professor Andrea Giacometti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’ospedale Torrette di Ancona – . In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che le attuali conoscenze sembrano puntare non tanto su una diretta azione lesiva del virus sul parenchima polmonare, ma piuttosto su un effetto nocivo dei meccanismi messi in atto dall’ospite aggredito».
Un fatto che secondo il primario «dà un senso alle terapie attive verso alcune citochine, come il Tocilizumab somministrato per inibire l’azione dell’interleukina 6 (IL-6)». Un farmaco che è in fase di sperimentazione a Marche Nord e agli Ospedali Riuniti di Ancona.
Un’altro studio dell’Istituto Superiore di Sanità mostra invece che in media trascorrono 8 giorni tra il manifestarsi dei sintomi e il decesso, e che la terapia antibiotica è una delle più utilizzate (83% dei casi). Secondo il professor Giacometti il ricorso agli antibiotici viene spesso impostato «perché ancora non si conosce l’eziologia della polmonite. Non è raro che il paziente giunga al Pronto Soccorso dopo aver trascorso alcuni giorni a casa con sindrome influenzale più o meno importante, o solo tosse e mal di gola: in queste situazioni sovente le persone assumono antibiotici sperando di risolvere a domicilio una banale infezione. Del resto, non è raro che anche coloro giunti in ospedale presentino al quadro radiologico un quadro “sporco”, misto, che fa pensare a una sovrapposizione batterica su una iniziale infezione virale».
Sul fronte delle caratteristiche dei deceduti, il report dell’Iss mostra che il numero medio di patologie osservate nella popolazione è di 2.7. Complessivamente il 25.6% delle persone decedute presentavano 2 comorbilità, mentre il 48,5% soffriva di 3 o più patologie. Il 12% dei pazienti ha avuto bisogno del ricovero in terapia intensiva, inoltre quelli che sono passati per questi reparti vivono un giorno in più dei pazienti che sono stati ricoverati in altre aree ospedaliere.
«Questa è senz’altro una percentuale alta – spiega il primario -. Il fatto che mediamente questi pazienti sopravvivano un giorno in più di coloro che non vanno in terapia intensiva sembrerebbe strano, poiché dovrebbero essere quelli più gravi a dover ricorrere ai colleghi rianimatori. Mi chiedo se questo dato non sia falsato da un possibile ritardo nell’accesso alle rianimazioni, ormai allo stremo e con letti perennemente occupati, da parte di pazienti che purtroppo invece ne avrebbero bisogno. È possibile che questo studio dell’Istituto Superiore di Sanità stia indirettamente dimostrando il grado di sofferenza dei nostri ospedali, soprattutto dei reparti di terapia intensiva».