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Crisi della moda, Staffolani (Univpm): «Pesa la concorrenza del Sud Est asiatico»

Cala la domanda interna e l'industria si ridimensiona, come evidenziano gli ultimi dati Istat sul fatturato dell'industria italiana. Ne parliamo con il professor Stefano Staffolani, preside della facoltà di Economia dell'Università Politecnica delle Marche

Gli ultimi dati Istat evidenziano che il fatturato dell’industria italiana è aumentato in termini congiunturali dello 0,1%, mentre nell’anno registra un calo del 3,7% (periodo giugno 2024). In diminuzione il fatturato dei servizi che registra un -0,7% nel mese e un -1,5% sull’anno.

Professor Stefano Staffolani, preside della Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche, la crescita dell’industria italiana è tornata a essere dello ‘zerovirgola’, dopo il recupero post pandemia. Significa che i lunghi mesi della pandemia hanno nascosto criticità strutturali?
«Le criticità strutturali esistono, ne siamo consapevoli, la ripresa post Covid è probabilmente cessata e l’industria si sta ridimensionando. Non si tratta di dati particolarmente significativi, ma la concorrenza dei Paesi del Sud Est asiatico crea una sofferenza. L’altro aspetto che sembra emergere è il calo della domanda interna, mentre le esportazioni invece continuano ad andare bene, un segnale che l’Italia è competitiva sui mercati mondiali». 

Il mercato interno continua a soffrire, nelle Marche, ad esempio, il settore del fashion è alle prese con segnali negativi che vanno oltre la congiuntura del momento…
«Quello del fashion è un problema nazionale, causato anche questo da una riduzione della domanda interna e dalla concorrenza del Sud Est asiatico, che si fa sentire in maniera particolare sui semilavorati tessili che vengono importati soprattutto da quelle zone. Questi Paesi stanno diventando sempre più interessanti anche in termini di alta qualità: mentre se fino ad un decennio fa la concorrenza era limitata ai prodotti di gamma bassa, adesso, invece, si è estesa ai prodotti ad alto contenuto di moda innovatività, di prodotto, di disegni e tessuti».

Salario minimo, come chiedono sindacati e alcune forze di centrosinistra, o stipendi legati alla produttività: che impatto potrebbero avere sui numeri dell’industria?
«Non credo che ci possa essere un impatto particolare né dal salario minimo né dagli stipendi legati alla produttività. Il problema di fondo è che il salario minimo, stabilito dalla contrattazione collettiva o dallo Stato, in tanti settori non viene rispettato. Inoltre, il salario minimo sarebbe una conquista che riguarderebbe pochi lavoratori regolari, ad esempio quelli occupati nel settore dei servizi alle persone. Per quanto riguarda la produttività le imprese già cercano di incentivarla, ma anche in questo caso legare gli stipendi alla produttività riguarderebbe solo un numero marginale di lavoratori e non certo quelli con qualifiche più basse».

Quale quindi la strada giusta?
«Servono politiche per incentivare la ripresa della domanda in Italia, ma il Governo è soggetto a vincoli di bilancio stringenti. Bisogna intervenire per ridurre la piaga del lavoro nero, che rappresenta, oltretutto, una forma di concorrenza sleale fra imprenditori. Anche le associazioni di categoria potrebbero essere più attente su questo punto».

L’Italia è il quarto paese esportatore al mondo, che segnale è?
«È il segnale che il Paese riesce ancora ad essere competitivo, un ottimo segnale, perchè significa che le imprese riescono ad avere un’alta produttività».

Le Marche su quali settori dovrebbero puntare?
«Su settori come la cantieristica e la farmaceutica, più difficile sostenere legno e moda, settori che sono più soggetti ad una facile concorrenza internazionale. Anche il turismo può essere un settore valido su cui puntare».

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