Ancona-Osimo

Dimissioni delle neo-mamme, nel 2019 in 894 hanno lasciato il lavoro nelle Marche

Segna un +3,2% rispetto all'anno precedente la quota di donne che hanno lasciato il lavoro dopo la nascita di un figlio per l'impossibilità di conciliare occupazione e famiglia. Barbaresi (Cgil): «Lo smart working può essere un terreno da percorrere, definendo bene le tutele»

Mamma (Foto di PublicDomainPictures da Pixabay)

ANCONA – Sono 894 le neo-mamme che nel 2019 hanno lasciato il lavoro. È la fotografia scattata dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro e dalla Cgil Marche. Un dato che continua a crescere nelle Marche, dove segna un +3,2% rispetto all’anno precedente, mostrando in tutta la sua gravità quella è che l’avversione del mondo del lavoro ad accogliere le lavoratrici madri. Insomma la maternità continua ad essere vista come un problema e un limite alla capacità produttiva da parte delle aziende e la donna continua ad essere discriminata nel mondo del lavoro. Neanche a dirlo si tratta di dimissioni volontarie alla cui base c’è sempre l’impossibilità di conciliare lavoro e famiglia, due ambiti che continuano ad essere contrapposti in un perenne braccio di ferro dove la donna continua ad essere penalizzata da un sistema che non le va incontro, mai.

Orari di lavoro rigidi e una rete di sostegno alla genitorialità carente sono un macigno per la donna. «È un dato che impressiona perché con gli anni invece di ridursi aumenta», commenta la segretaria generale Cgil Marche, Daniela Barbaresi che evidenzia come si tratti di «un dato enorme nonostante negli ultimi anni abbiamo assistito ad un proliferare di bonus di ogni genere (ndr bonus bebé ecc) che alla fine vanno a depauperare le risorse destinate al sistema di welfare».

Secondo la Barbaresi infatti, se da un lato «mancano le risorse per potenziare i servizi, come ad esempio i nidi» dove ci sono pochi posti e il costo è elevato, così come per le baby sitter, dall’altro «occorre intervenire sull’organizzazione del lavoro». «Le imprese devono fare la loro parte – osserva la Barbaresi -, da anni stanno chiedendo flessibilità ai lavoratori, ma ora occorre che questa stessa flessibilità venga non più solo pretesa, ma anche riconosciuta alle lavoratrici». Insomma una medaglia che dovrebbe avere due facce e non una sola.

A preoccupare la Cgil è anche il fatto che per il 2020 lo scenario potrebbe essere ancora più negativo, per l’impatto avuto dalla crisi scatenata dal lockdown che potrebbe vedere le neo-mamme, ma anche le lavoratrici in termini più generali, ulteriormente penalizzate.

Daniela Barbaresi, segretaria generale Cgil Marche

Lo smart working potrebbe essere una soluzione per aiutare le donne a conciliare lavoro e famiglia? «Potrebbe essere una risposta, per consentire di gestire i tempi del lavoro con quelli della famiglia, ma c’è anche il rischio di una nuova segregazione per le donne che potrebbero andare incontro all’isolamento». Uno strumento che potrebbe avere la sua valenza, ma solo «se opportunamente strutturato, altrimenti si rischia di lavorare di più», spiega la Barbaresi, nel precisare che «quello che abbiamo conosciuto in questi mesi era più che altro telelavoro», perché mancava quella autonomia prevista. Intanto nel periodo della quarantena, nelle Marche hanno lavorato in smart working 2.079 dipendenti della Pubblica Amministrazione, ovvero l’83,5% dei lavoratori.

Dall’ultimo rapporto Istat sulla “Situazione e prospettive delle imprese nell’emergenza sanitaria Covid-19” emerge che in Italia, tra marzo e aprile 2020, l’8,8% dei lavoratori è stato impiegato in modalità di lavoro agile. Ad attuare lo smart working in Italia è stato il 90% delle grandi imprese (con 250 addetti e oltre) e il 73,1% delle imprese di dimensioni medie (dai 50 ai 249 addetti). I settori più coinvolti sono i servizi di informazione e comunicazione dove si è passati dal 5% al 48,8%, le attività professionali, scientifiche e tecniche che hanno segnato un balzo dal 4,1% al 36,7%, l’istruzione dove il lavoro agile è cresciuto dal 3,1% a 33% e infine la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata
dove il balzo è stato dal 3,3% al 29,6%.

(Foto di Kevin Phillips da Pixabay)

Ma anche dopo la fine del lockdown, e quindi tra maggio e giugno 2020, sono molte le imprese che hanno continuato ad adottare il lavoro a distanza (5,3%), specie nelle grandi e medie imprese dove la quota, anche se in declino, resta comunque elevata (dal 25,1% al 16,2%).

Certo è che se per la donna per certi versi è una opportunità, per altri può essere anche un limite: con la possibilità di lavorare da casa, mentre ad esempio si cuoce il pranzo, alla fine le donne lavorano di più, senza mai disconnettersi e in orari che non sempre vanno incontro alle esigenze della famiglia. «Può essere un terreno da percorrere – osserva Daniela Barbaresi – definendo bene le tutele per le lavoratrici, perché altrimenti si crea un aggravio dei carichi di lavoro, e oltretutto la donna si trova a dover condividere nello stesso luogo vita professionale e familiare, con il risultato che “non si stacca mai”».

A livello nazionale sono 37 mila le lavoratrici dipendenti che hanno lasciato il lavoro entro i primi tre anni alla nascita di un figlio. «Per sostenere la conciliazione tra la propria attività professionale e il lavoro di cura – conclude – , il cui carico non può e non deve essere sostenuto solo dalle lavoratrici, ma condiviso tra uomini e donne, è necessario un forte investimento nel sistema di welfare a partire dalla scuola per l’infanzia nella fascia 0-6 anni».