ANCONA – Aveva 16 anni quando ha iniziato ad andare dalla ginecologa. Anche se non obbligata a farlo, il giorno in cui ha preso appuntamento ha avvertito che era una persona in carrozzina elettrica, per evitare di trovarsi nell’impossibilità di accedere a causa di barriere architettoniche. Si è recata presso un ambulatorio ostetrico-ginecologico, in un ospedale dell’Anconetano. Qui si è trovata in uno spogliatoio troppo piccolo per riuscire a svestirsi e muoversi. Nella stanza in cui è entrata, Marta Migliosi non ha trovato né un sollevatore che le permettesse di stendersi, né un lettino ad altezza variabile che la aiutasse nello spostamento.
Un dato purtroppo in linea con quelli del Rapporto di ricerca curato dal Gruppo donne dell’associazione UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, dal titolo Accessibilità dei servizi di ginecologia e ostetricia alle donne con disabilità. Secondo la ricerca, condotta la prima volta nel 2013, il sollevatore era presente solo in 2 ospedali sui 19 presi in esame (precisamente all’Ospedale Grassi di Roma e all’Ospedale San Giovanni di Tivoli). Riproposto nel 2022 con 131 questionari e numerosi focus group, riporta un 83% di ambulatori ostretico-ginecologici in cui non è presente il sollevatore o è assente il personale formato in grado di aiutare le donne con disabilità, mentre solo il 27% delle persone ha potuto usufruire di uno spogliatoio accessibile prima della visita.
«Non ci sono spazi sufficientemente grandi – racconta Marta -. Le strutture, le stanze e gli strumenti non sono pensati per persone con disabilità». Questo problema è solo un gradino della lunga scala della discriminazione chiamata abilismo. Fanno parte dell’abilismo tutti gli atteggiamenti che non permettono alla persone con disabilità di autodeterminarsi. Durante la visita ginecologica, la dottoressa si è confrontata sempre e solo con l’accompagnatore – che è rimasto per tutta la durata della visita -, non ha chiesto a Marta se avesse rapporti, non le ha spiegato precauzioni e buone pratiche nel sesso, non si è preoccupata di informarla su quali fossero le malattie sessualmente trasmissibili.
«Non credo che la ginecologa ne fosse cosciente, ma quello che è accaduto ha il nome di abilismo», spiega Marta. «Non interpellarmi, dare per scontato che anche in quel momento fosse necessaria la presenza di una terza persona, non riuscire a pensare che fossi prima di tutto una donna, con desideri e sessualità attiva e che avessi bisogno di informazioni. Questo accade spesso, in molti ambiti, ed è l’esito di un insopportabile processo di oggettificazione e stereotipizzazione della persona con disabilità».
Non solo una discriminazione legata alla difficoltà di accesso logistico e pratico all’interno di ambulatori pubblici: «La multidiscriminazione (come viene definita dal rapporto della Commissione Europea nel 2007) consiste nel sovrapporsi di più tipi di discriminazione: sono donna e sono una persona con disabilità. La disparità che si crea è dunque legata sia alla possibilità concreta di accedere e fruire servizi, di essere autonoma, sia al mancato riconoscimento come soggetto politico».
Dopo questa prima sperienza, Marta è tornata più volte in studi ginecologici, rilevando sempre problemi riguardanti gli spazi e l’accessibilità dei servizi. «Nelle prime due visite della mia vita, non avevo la consapevolezza necessaria per recriminare i miei diritti, non sapevo proprio cos’era una visita ginecologica. Poi sentivo le mie amiche, coetanee parlarne e ho capito che mi era successa una cosa completamente diversa».
Alla terza visita, però, è successo qualcosa di diverso. «Ho trovato una ginecologa bravissima. Sono entrata nell’ambulatorio e gli spazi erano piccoli, non c’era il lettino sollevabile né il sollevatore, ma è andata diversamente dal passato. La dottoressa – spiega Marta – ha fatto uscire il mio accompagnatore, mi ha dato del “lei” per tutta la visita, è stata professionale. A differenza delle volte precedenti, non mi ha chiesto perché stessi sulla carrozzina, ma mi ha chiesto se fossi sessualmente attiva, se avessi qualche problema nei rapporti o fastidi legati al mio apparato genitale. Mi sono sentita trattata come le altre. Certo, ci siamo arrangiate sulla carozzina, ma siamo riuscite a fare una visita completa».
Sono la cultura, la formazione e, certamente, l’abbattimento di barriere strutturali le uniche vie per riflettere, comprendere e modificare le pratiche sanitarie e relazionali rispetto alle persone con disabilità: «La disabilità è una delle caratteristiche identitarie della persona ma non l’unica, e non deve coprire le altre, come l’essere donna».
Marta, assieme al gruppo donne dell’associazione UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare, sta scrivendo un progetto «da proporre all’amministrazione comunale di Ancona, anche attraverso il Forum cittadino delle donne: si tratta di seminari su abilismo e multidiscriminazioni che possano direzionare l’approccio, le pratiche e il pensiero ancora troppo stereotipato. Il non sapere è una pericolosa forma di potere, poiché, sommato ad altro non sapere, forma il sapere condiviso, che però è errato, fumoso, generico, appunto disabilizzante».