ANCONA – A poche ore dalla tragedia di Francavilla a Mare, dove un uomo ha ucciso moglie e figlia prima di suicidarsi, un altro femminicidio colpisce il centro Italia. Questa volta teatro della tragedia è stato il quartiere la Corva di Porto Sant’Elpidio, nel fermano. È proprio qui, che due giorni fa, Giuseppe Valentini, imprenditore di 78 anni, ha ucciso la moglie Silvana Marchionni di 75 anni. Ancora da stabilire le motivazioni del folle gesto che hanno spinto l’uomo, al culmine di una lite, a sparare tre colpi verso la moglie, con uno dei fucili da caccia regolarmente detenuti. Due dei tre spari hanno raggiunto la donna al petto e al volto, ferendola a morte.
Sarebbe stato il figlio della coppia a dare l’allarme, dopo aver udito gli spari dalla sua abitazione, vicina a quella dei genitori. Sul posto sono intervenuti i Carabinieri e la Croce Verde, ma per la donna non c’è stato nulla da fare, è morta sul colpo.
Un fenomeno che non si arresta, quello della violenza ai danni delle donne, nonostante l’introduzione nel 2009 del reato di stalking e della legge contro il femminicidio del 2013. La strage delle donne, vittime dell’efferatezza dei loro coniugi, purtroppo continua. Questo di Porto Sant’Elpidio è il 26° femminicidio avvenuto in Italia da inizio anno. Una violenza, molto più diffusa di quanto si possa pensare, che spesso non viene denunciata e quindi resta impunita. Però molte donne reagiscono e sono in crescita quelle che chiedono aiuto agli sportelli antiviolenza. A dirlo sono i dati del Centro Antiviolenza di Ancona. Ad oggi, da inizio anno, sono 61 le donne che si sono rivolte alla struttura di Ancona per chiedere aiuto, quando nello stesso periodo dello scorso anno erano circa una cinquantina. La maggior parte delle violenze si verificano all’interno delle mura domestiche, o comunque sono perpetrate da ex compagni o ex fidanzati.
Molte più donne, molto più informate, sono quelle che si rivolgono alle strutture territoriali per farsi aiutare. «Negli anni è cambiato il tipo di donna che chiede aiuto – precisa Myriam Fugaro, presidente del Centro Antiviolena di Ancona – oggi sono molto più consapevoli delle violenze che subiscono e del pericolo che corrono. In particolare se si trovano nella condizione di voler interrompere la relazione spesso sentono di essere in pericolo, ma non sempre sono credute e adeguatamente sostenute».
Ma cosa scatta nella mente dei maschi colpevoli di omicidi?
«Una fortissima intolleranza alla frustrazione – spiega lo psichiatra Carlo Ciccioli – non siamo più abituati a conquistarci le cose e ad accettare che le cose non siano come noi vogliamo. Il risultato è l’impossibilità a sopportare. Nella cultura dei nostri nonni e bisnonni vigeva la tolleranza e l’accettazione delle regole: le mogli che sopportavano i mariti, i figli che sopportavano i genitori, gli operai che sopportavano le vessazioni. Oggi siamo passati dalla teoria della sopportazione estrema a quella del rifiuto, dalla teoria del sacrificio a quella della liberazione, che ha avuto il suo trionfo nel ‘68, quando ai giovani non si davano più regole e i comportamenti disdicevoli erano accettati e addirittura, in qualche modo, quasi idealizzati, come nel caso del cantante che fa uso di droga o del ribelle, piuttosto di chi conduce una vita sociale ordinata. Il ’68 ha segnato tanti no: no alla famiglia, no alla fabbrica, no all’autorità, è stato il trionfo della negazione. Oggi viviamo il prodotto di questo, per cui quando gli individui si trovano di fronte a schemi verso i quali non hanno capacità di resistenza, tendono a mettere in atto l’”acting-out”, ossia un gesto estremo, un’azione oppositiva fuori da ogni controllo. Questi casi rappresentano degli “acting out”: si verifica un episodio che non si riesce a sopportare, come un rifiuto, una delusione, e si reagisce ammazzando ed ammazzandosi, perché la ferita subita non viene accettata. Uno psichiatra ha parlato di una condizione psichica di “emergenza narcisismo”, dove l’individuo guarda solo a se stesso, ai suoi bisogni, diritti, vantaggi, alle proprie richieste e desideri, non tenendo in alcun conto l’Altro da sé. E questo porta a reazioni distruttive e talvolta fortemente autodistruttive.
I teologi sostengono che Dio sia stato ucciso per far trionfare l’Io, di Dio c’è rimasto solo l’IO»
I femminicidi nascondono storie di violenze che nascono nel passato delle vittime e durano a volte anche anni, prima di sfociare nel tragico epilogo. «È ormai dimostrato che uccidere una donna non è altro che la conclusione di un percorso di violenza che ha avuto una storia transgenerazionale di anni – sottolinea Francesca Mancia, psicoanalista e psicoterapeuta – molto spesso le vittime colludono poiché non hanno tentato di avere protezione da familiari o dall’Autorità Giudiziaria, nascondendo la sofferenza in preda a sensi di colpa, che sono sempre stati alla base del rapporto di coppia costruito con l’omicida. Storie di passività e di accettazione, di un crescendo di soprusi che attingono all’idea che l’Altro sia un oggetto di possesso e non possa andarsene o evolvere emotivamente rispetto alla coppia. L’ immigrazione inoltre importa culture meno evolute della nostra e ripropone modelli arcaici molto aggressivi e condizionanti verso il femminile, inoltre la fluidità del web rende accessibile ideologie distorte e modelli mobbizzanti. Uccidere il proprio oggetto narcisistico in modo plateale risponde al bisogno narcisistico di prevalere sulla vittima e farsi giustizia».
Un fenomeno, quello della violenza contro le donne, che richiede interventi programmati per un’efficace azione di contrasto. «Sono donne ammazzate dalla società, siamo corresponsabili – dichiara la Consigliera di Parità della provincia di Ancona Pina Ferraro Fazio – e del resto già nel 2015 la rappresentate Onu aveva dichiarato che i femminicidi in Italia sono “crimini di stato”. Invece di migliorare le prassi si è assistito ad una inversione di rotta e ad un peggioramento significato nelle azioni di contrasto e nella programmazione di politiche di intervento di lungo respiro con la previsione di azioni di sistema. Basta con gli interventi emergenziali agiti con l’ennesimo femminicidio. Basta con le dichiarazioni di principio e la rincorsa alla visibilità e alla creazione di azioni fumose e poco concrete. Occorre una programmazione seria e adeguata, una progettualità quanto più condivisa tra tutti gli attori istituzionali e del privato sociale e gestita da soggetti professionalmente competenti. E’ necessario dare maggiore autonomia e dignità al lavoro dei centri antiviolenza, bandendo politica e istituzioni da queste strutture e creando supporti reali e concreti. È fondamentale lavorare su una formazione e informazione ad ampio livello, soprattutto nelle scuole e nei luoghi di apprendimento, già dalla tenera età, educando al rispetto tra le persone, in modo da destrutturare gli stereotipi di genere. Lavorare per l’accoglienza della diversità in tutte le sue forme. Fondamentale, inoltre, la formazione continua del personale operante nei consultori, nelle forze dell’ordine, negli ospedali, all’interno del sistema giudiziario e scolastico e in tutte le strutture territoriali, sulle normative già esistenti, sulla metodologia di accoglienza, anche in ottica di rete, sugli strumenti operativi e concreti per il contrasto alla violenza. Solo se decidiamo di fermarci un attimo e ripartire con serietà, competenza, adeguatezza, potremmo sperare in una netta contrazione del fenomeno».
L’importanza dell’educazione al rispetto dell’altro sesso, è chiamata in causa anche dalla psicoterpeuta Francesca Mancia., che rivolge questo appello a genitori, scuole ed istituzioni «affinché vengano pensati ed attivati nuovi percorsi educativi alla sessualità e alla costruzione della coppia. Non si tratta più di una società che non sta al passo con l’emancipazione femminile ma di una società senza limiti, vengono violentate ed uccise donne anziane, bambine, figlie ed estranee. Si fa scempio del corpo e si fa spettacolo dell’atto di uccidere in un delirio senza più freni inibitori. In tutto questo i bambini ci osservano ed i genitori debbono parlare con loro, fare luce sulla strada del rispetto e dell’accettazione del cambiamento. Naturalmente occorrono progetti più aggiornati e maggiori investimenti sulla prevenzione del maltrattamento ed un percorso serio e partecipato a livello familiare di educazione civica».