ANCONA – Il generale Antonio Federico Cornacchia ospite della serata di domani (27 giugno). Una serata organizzata dall’Associazione nazionale carabinieri (ispettorati Marche e Umbria) e dall’Accademia di Oplologia e militaria, con il patrocinio del Comune di Ancona. Appuntamento alle 17.30 alla Sala consiliare di Palazzo del Popolo, in largo XXIV Maggio, con l’autore di otto libri che cercano di fare luce sugli Anni di piombo, quelli della strategia della tensione, pieni di massacri e rapimenti.
Cornacchia (nome in codice Airone 1) è forse il carabiniere italiano più famoso della seconda metà degli anni Settanta. Era il braccio operativo del generale Dalla Chiesa. «Lui studiava i blitz a tavolino e insieme coordinavamo gli uomini. Mandava me ad arrestare i criminali», ricorda Cornacchia, arrivato alla veneranda età di 92 anni.
E pensare che le Brigate Rosse volevano farlo fuori: scampò a quattro attentati. Uno di questi venne portato avanti con l’impiego di bombe a mano. Provvidenziale, in una di queste occasioni, l’incontro con un rapinatore pentito con cui Cornacchia si fermò per un caffè.
Alle 8 di mattina di quel maledetto 13 luglio 1979, il generale avrebbe dovuto incontrare il collega Antonio Varisco: morì lui anziché Cornacchia. Le BR rivendicarono tutto. «Iscritto alla P2 a sua insaputa», venne «messo sotto inchiesta ma ne uscii pulito», rimarca.
«Quello di giovedì – spiega – sarà un incontro in cui risponderò senza filtri alle domande che mi verranno poste. Le Marche si intrecciano con la storia della mia carriera lavorativa. Seguii un sequestro di persona tra Macerata e Tolentino», commenta.
I suoi otto libri sono un omaggio «doveroso» a chi lavorò fianco a fianco col generale: «Quando ero capitano, fui assegnato quale Comandante alla prima sezione dell’allora Nucleo investigativo Carabinieri di Roma. Avevo centinaia di collaboratori, senza di loro il superiore non può affrontare le sue esigenze. Sono persone che vanno ricordate».
Intanto, a uno dei più pericolosi criminali italiani, Renato Vallanzasca, l’autorità giudiziaria consente l’uscita dal carcere per andare in una comunità di cura. Ad arrestarlo, fu proprio il generale Cornacchia: «Il permesso? Credo sia giusto, è pur sempre una persona – riflette –. Qualche mio collega, prima dell’arresto, voleva mettere fine a tutto e farlo fuori. Io precedetti i miei carabinieri e mi imposi. Lo volevo arrestare, ma doveva rimanere vivo».
Fu Cornacchia, in via Caetani, ad aprire «per primo» il bagagliaio della Renault 4 rossa amaranto in cui si trovava il corpo dell’onorevole Aldo Moro: «Lo conoscevo da anni, anche per via dei colleghi che gli facevano da scorta – dice –. Il corpo era nel bagagliaio, sotto una coperta. Lo vidi con la lingua insanguinata, assistetti all’autopsia. Il medico legale mi disse che morì in modo atroce, accusò dolori dai 12 ai 14 minuti. Fu raggiunto da undici colpi di pistola. Uno di questi, calibro nove, alla scapola sinistra. Recuperammo la pallottola per l’esame balistico. Quindi, gli altri dieci indirizzati al cuore con una Skorpion. Colpi che però non raggiunsero mai il muscolo cardiaco. E lui, di conseguenza, morì dissanguato».
La storia e i libri di Cornacchia si intrecciano con la strage di Bologna, con il dirottamente della nave Achille Lauro e con il delitto del Circeo. Quanto alla P2, chiediamo se sia vero che il generale fosse iscritto alla loggia: «Lo ero, ma a mia insaputa. La domanda non è mai stata trovata, perché non l’avevo mai fatta. Il mio nome, le cui generalità erano scorrette (c’era scritto Giuseppe, anziché Antonio), era riportato nelle liste. Fu Licio Gelli a far rinvenire i registri. Lo conoscevo per vicissitudini professionali. Dentro le liste, c’era anche il nominativo di Giulio Andreotti, che però risultava cancellato da un anno». Domandiamo se qualcuno avesse voluto incastrarlo, ma lui glissa: «Questo non lo so».
Generale, ha mai avuto paura? «Quella è innata in ognuno di noi – risponde –. All’epoca, noi ci eravamo uniformati all’ambiente. Si viveva un clima di disorientamento necessario, noi dovevamo essere presenti a noi stessi. Furono anni impegnativi. Le vittime di alcuni omicidi erano persone innocenti, i carabinieri erano anche psicologi. Con alcune famiglie – confessa – sono ancora in contatto».