Ricorre il 15 marzo di ogni anno una giornata mondiale speciale dedicata alla sensibilizzazione sui disturbi dell’alimentazione e della nutrizione, conosciuta in Italia anche come giornata nazionale del fiocchetto lilla. Riguarda molti temi, comprese l’anoressia e la bulimia. Ma se questi sono i fenomeni forse più noti, accanto ad essi ci sono altri disturbi meno famosi ma altrettanto complessi da cogliere e da trattare, non tanto da un punto di vista clinico quanto per l’approccio multidisciplinare che richiede anche un avvicinamento consapevole ed empatico. Il binge eating, l’ortoressia nervosa, la vigoressia e la drunkoressia sono termini con cui dovremo fare sempre più i conti perché, soprattutto tra la popolazione giovane, stanno aumentando velocemente i casi. Dal 2019 al 2023, secondo i dati del ministero della salute, i casi sono passati da circa 700 mila a oltre 3 milioni, portando alla luce quindi una difficoltà diffusa. Si stanno moltiplicando i centri che curano, con un approccio integrato e complessivo questi disturbi ma andando più nel profondo per cercare le vere cause, non fisiche, di un disagio che viene invece espresso a livello corporeo. Da questa giornata dei disturbi alimentari è nata quindi l’intervista alla dottoressa Anna Maria Cester, psicoterapeuta che ha dato vita assieme ad altre colleghe al centro Mosaico ad Ancona, un centro clinico che si occupa della diagnosi e ovviamente del trattamento dei disturbi dello sviluppo in età evolutiva.
Partiamo se possibile da una panoramica delle problematiche più diffuse
In base all’età e alla fascia evolutiva parliamo di diverse tipologie di disturbi, diverse anche per qualità e frequenza con cui si presentano. Ovvio che i disturbi della prima infanzia non sono gli stessi dell’età adolescenziale. Però, in primo luogo, il messaggio importante da far arrivare è che anche i bambini piccoli, e sin da bambini piccoli si possono e frequentemente si palesano dei disturbi nell’area dell’alimentazione. Disturbi che coinvolgono la diade madre e bambino e che diventano, credo anche in maniera più evidente rispetto all’età adolescenziale, un veicolo con cui il bambino comunica che c’è qualcosa che in ambito relazionale, in ambito familiare, in un ambito generale del suo sviluppo, non sta andando per come deve andare.
Di cosa parliamo quindi?
Per esempio il rifiuto del cibo nel bambino può assumere diverse modalità: va da un rifiuto dello svezzamento a un rifiuto all’introduzione di cibi solidi che di solito avviene intorno all’anno di età, a un rifiuto poi successivamente che assume i contorni di una neofobia, cioè un rifiuto all’introduzione di alimenti che non siano i pochissimi noti come la pasta in bianco, le patate lesse, la pizza etc., il rifiuto di tutto ciò che è nuovo. Ciò può avvenire anche caratteristiche come per esempio disturbi post-traumatici del cibo, dopo un vomito importante o dopo l’introduzione di un sondino per una motivazione medica magari, il bambino può sviluppare un sintomo di post traumatico appunto, quindi con un’intensa paura e rifiutare quindi l’avvicinamento del cibo alla bocca.
Con che frequenza si manifestano?
I report non sono univoci da questo punto di vista, però hanno una frequenza che è molto alta, che varia da un bambino ogni 4, quindi un 25%, fino a un 30-35%. Questo non significa che tutto sia patologico. Alcune di queste situazioni vanno a volte sciogliendosi da sé, perché appunto hanno una valenza comunicativa che, se colta dal genitore tramite anche magari l’aiuto del pediatra o comunque di chi sa leggere quello che sta succedendo, facilmente si scioglie; altre volte in condizioni diciamo più impegnative questo permane e rimane in sottotraccia, inscritto nel corpo dell’individuo e come una sottotraccia che poi in adolescenza può detonare.

Questa valenza comunicativa vale anche nell’età adolescenziale e negli anni successivi?
Assolutamente sì, questa è anche la sfida che porta un ragazzo adolescente da un punto di vista proprio conoscitivo. Esprime con il corpo fondamentalmente un qualche cosa che non è esclusivo del corpo, ma che ha una valenza simbolica che si è data perdendo lungo il cammino. Un disturbo alimentare, per intenderci un’anoressia, non può essere curata solamente da un approccio dietistico-nutrizionale, perché quella è la volta buona che noi peggioriamo tremendamente la situazione. La sfida appunto dei curanti è cogliere la valenza comunicativa che si è andata perdendo; nella prima infanzia è facile coglierla. Nell’adolescenza esiste, ma occorre da parte di chi cura questi ragazzi una attitudine simbolica a saper tradurre ciò che si esprime in un dato concreto, fisico, corporeo, in una valenza emotiva, comunicativa, relazionale, profonda e così via.
E come si affrontano queste sfide dunque?
Nel corso degli anni, si è andati consolidando dei poli multispecialistici, di équipe che sono proprio costruite anche secondo questa visione e secondo questa necessità della cura. Équipe in cui cooperano e pensano insieme figure come il neuropsichiatra, il medico-nutrizionista o il dietista, lo psicologo, per riuscire a dare una risposta integrata tanto su quelle che sono le necessità fisiche, perché comunque il piano del corpo viene intaccato, tanto da un punto di vista di riabilitazione nutrizionale e con dei suggerimenti anche comportamentali, questo sicuramente sì. Ma non è sufficiente, perché finché non si va intercettando e modificando appunto questa traccia amnestica di cui parlavamo prima, corporea profonda, il disturbo alimentare è lì, permane, e si cronicizza.
In base alla sua esperienza, questi disturbi sono in aumento negli ultimi anni, magari anche dopo il periodo del covid?
Soprattutto durante e dopo il periodo del covid, quello che è detonato è in generale in aumento tutto ciò che riguarda l’espressione di una propria patologia identitaria che viene riversata sul corpo. Sicuramente sono aumentati i disturbi alimentari, ma non solo, tanti anche fenomeni che riguardano per esempio i tagli, l’automutilazione, forme di tatuaggi più o meno estremi, fino ad arrivare a tutto quel gioco estremamente complesso da poter comprendere e cogliere che è per esempio tutto l’aspetto della disforia di genere, che è un altro territorio per esempio dove ciò che ha a che vedere con la propria immagine, la propria identità viene giocata non su un piano strettamente psichico come poteva essere in altri tempi e in altre generazioni, ma passa attraverso l’uso del corpo, forse a volte anche l’abuso del corpo e tutta questa teatralità che viene messa in scena nel palcoscenico del corpo è una sfida grande per noi adulti che dobbiamo stare accanto a questi ragazzi e in particolare per quello che riguarda le persone nell’ambito della salute mentale che si occupano di questa fascia di età.
È possibile indicare altri segnali non fisici – come l’atto di autolesionismo, un tatuaggio, il rifiuto del cibo – che possono far individuare un disagio?
Oltre ai classici segnali di una riduzione, una restrizione, una preoccupazione, forse nel 2025 dobbiamo anche imparare un pochino a capire, a cogliere che cosa succede nell’altro lato del mondo adolescenziale che è il mondo online. Un territorio molto frequentato dai ragazzi è quello dei social: noi adulti dovremmo imparare a tradurre e a cogliere che cosa si sta giocando in quel territorio. Per quello che riguarda l’immagine corporea, che in età adolescenziale è un territorio vulnerabile e delicato, viene molto manipolato su un ambito culturale. Ancora una certa magrezza, un certo controllo, vengono ancora molto valorizzati e enfatizzati, se non a parole almeno per immagini. I social come TikTok, Instagram, sono un grande territorio in cui queste ragazze e ragazzi si confrontano con un livello di verosimiglianza ideale, patinata, con la quale il confronto è difficile e si entra facilmente in scacco.