ANCONA – Il fotografo delle star approda ad Ancona con una mostra antologica che racconta i suoi primi 50 anni di attività. “Remain in light” è il titolo della personale di Guido Harari che resterà allestita alla Mole Vanvitelliana (Sala Vanvitelli) fino al 9 ottobre. Oltre trecento scatti per ripercorrere tutte le fasi di un grande artista delle immagini attraverso i suoi ritratti.
Harari, “Remain in light” è il nome di un celebre disco dei Talking Heads. Perché ha voluto intitolare così la sua mostra?
«Il progetto è un racconto del mio percorso che attraversa diverse fasi, ma che sostanzialmente vuole conservare la memoria di tanti personaggi, tanti periodi ed esperienze. “Remain in light” è da un lato l’esortazione che il fotografo fa al soggetto, ma allo stesso tempo vuol dire mantenere i riflettori accesi su personaggi, periodi e movimenti culturali».
Cinquant’anni di attività professionale. Con questa mostra vuole tracciare un primo bilancio della sua carriera?
«In un certo senso sì, anche se l’idea di questa mostra viene dall’assessore Paolo Marasca che tempo fa mi propose di realizzare qualcosa di importante per Ancona. Così pensai ad una mostra che abbracciasse tutto il mio percorso, dall’inizio fino ad oggi. Ed eccoci qua».
E allora partiamo dall’inizio: quando ha scoperto la sua passione per la fotografia?
«Intorno ai 14 anni. Allora non c’erano ancora i videoregistratori e le apparecchiature digitali. Così, quando vedevo trasmettere i primi video musicali sulle reti Rai mi chiedevo come avrei potuto fare per immortalare il ricordo di quelle immagini. E mi misi a fotografare lo schermo televisivo».
La musica è stata la scintilla che ha acceso il suo interesse per la fotografia?
«Sì, è partito tutto da lì. Ricordo che nel ’71 mi capitò tra le mani una copia della rivista Rolling Stone America, con in copertina un ritratto molto autentico di John Lennon ad opera di un’ancora sconosciuta Annie Leibovitz. Pensai che se fosse possibile raccontare la musica con quella autenticità, allora quella era la strada da percorrere per incontrare i musicisti che amavo».
E di artisti lei nei ha conosciuti molti. Tra le tante esperienze, quale le è rimasta più sottopelle?
«Proprio una con un non musicista: Alda Merini. Andai nel suo piccolo appartamento sui navigli. Mi accolse chiedendomi di getto: “le sembro piacente?”. Rimasi spiazzato. Risposi: “di più, lei è intensa”. Ci rimase male. Ribattè: “ah, piacente no!”».
Con chi si è creata subito un’intesa magica?
«Con Lina Wertmuller. Con lei è partito subito il divertimento. C’era un desiderio di passare un momento positivo insieme, di produrre qualcosa anche di inedito e inaspettato. Alla foto di lei nella vasca da bagno ci siamo arrivati raccontandoci storie, piccole provocazioni e aneddoti».
E con chi, invece, ha avuto maggiori difficoltà?
«In generale con chi lavora molto sulla costruzione della propria immagine e ne ha un controllo assoluto, come Giorgio Armani. Personaggi come lui non lasciano molti margini di indagine».
Recentemente è ricorso l’anniversario della morte di Franco Battiato. Che ricordo ha di lui?
«Anche lui non era molto avvezzo ai set fotografici. Ci siamo conosciuti negli anni ’70, poi ci siamo visti l’ultima volta nella sua casa a Milo. Dopo tre scatti, disse: “bene, avete le foto. Adesso possiamo andare”. Poi bastava parlare di un libro che ti teneva ore a discuterne».
Delle nuove generazioni di artisti chi le piacerebbe mettere davanti al suo obiettivo?
«Negli ultimi 15 anni mi sono sentito più attratto dalle persone comuni. Recentemente mi è accaduto con due giovani che mi hanno molto incuriosito. Uno è Nicolò Govoni, scrittore e attivista per i diritti umani. L’altra è Marta Cuscunà, una regista teatrale molto agguerrita. Due bellissime scommesse sul futuro di cui voglio salvare la memoria».