«I teatri chiusi non sono la soluzione. Bisogna fare in modo che riaprano, perché secondo me si può riaprirli in sicurezza. Nei mesi in cui lo sono stati non si sono verificati contagi, con le dovute misure che sono state scrupolosamente applicate quando si è stato consentito di fare spettacolo dal vivo, in presenza di pubblico». Arturo Cirillo, regista e attore partenopeo, due volte Premio Ubu (migliore regia nel 2004 e migliore attore non protagonista nel 2006), ne è sicuro: «senza il suo pubblico il teatro non è tale», perché – spiega «il teatro è quella cosa che si fa dal vivo, con gli attori e gli spettatori presenti, nello stesso momento. Se tutto questo si porta in tv o in internet va benissimo, ma non può essere una alternativa in maniera più assoluta. Non sono d’accordo con il ministro Franceschini quando dice che il futuro del teatro è dentro una piattaforma digitale».
Nei giorni scorsi, l’artista ha lavorato al Teatro delle Muse di Ancona per il riallestimento di uno spettacolo di successo, La scuola delle mogli di Molière, realizzato nel 2018 da Marche Teatro, Teatro dell’Elfo di Milano e Teatro di Napoli, con oltre 100 repliche alle spalle. Dopo una lunga tournée, durata tre anni, questa ed altre produzioni si sono dovute fermare, prima per effetto del lockdown e poi da settembre per la nuova chiusura dei teatri al pubblico disposta dal Governo tra le misure di contenimento del Covid-19. Nei giorni scorsi, grazie a Marche Teatro e alla Rai, La scuola delle mogli è ritornata in palcoscenico, per alcuni giorni di prove davanti alle telecamere di Rai 5 che sabato 27 febbraio in prima serata (ore 21,15) – con la regia televisiva di Francesca Taddeini – trasmetterà la ripresa integrale dello spettacolo.
Al centro del racconto, è la vicenda di Arnolfo che, ossessionato dal timore dell’infedeltà coniugale, alleva fin dall’infanzia una ragazzina, Agnese, tenendola segregata nella speranza di farne una moglie virtuosa. La giovane donna, lasciata nell’ignoranza delle cose della vita, si innamora però di Orazio e sfugge alle mire del suo “protettore”. Dello spettacolo, Arturo Cirillo firma la regia teatrale, e ne è anche il protagonista nei panni del nobile Arnolfo. Con lui in scena sono Valentina Picello (Agnese), Rosario Giglio (Crisaldo, amico di Arnolfo), Marta Pizzigallo (la serva Georgette) e Giacomo Vigentini (Orazio); le scene sono di Dario Gessati, i costumi di Gianluca Falaschi, luci di Carmela Piccioni, musiche di Francesco De Melis; Cesare Garboli firma la traduzione del testo di Molière.
Lasciamo alle spalle un anno difficile. Questo ritorno a teatro lo vive più con gioia o con amarezza?
«Lo vivo con gioia perché dopo alcuni anni la Rai è tornata a curare delle trasposizioni di spettacoli teatrali per la televisione. È meritevole che il servizio pubblico torni ad offrire al teatro occasioni di lavoro, documentazione e divulgazione, e però il teatro in tv non risolve i problemi di esistenza del teatro, intanto perché il teatro può andare in televisione dopo che è stato teatro, e per essere teatro deve essersi incontrato ad un certo punto con il pubblico, dal vivo. Faccio un esempio pratico ed economico. Cinque giorni di prove per una produzione teatrale girata per la tv, anche se siamo pagati un po’ di più del solito, non potranno mai compensare quattro mesi di tournée annullata».
Nel 2020, tra lockdown e riaperture teatrali a singhiozzo, è riuscito a lavorare?
«All’inizio d’anno con la compagnia avevamo chiuso da poco La scuola delle mogli ed eravamo in tournée teatrale con lo spettacolo Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen (una produzione Marche Teatro e Teatro Stabile di Napoli, ndr). Come attore, inoltre, al Festival di Napoli per la regia di Mario Scandale ho peso parte ad un nuovo produttore spettacolo su un testo contemporaneo, Il dolore di prima di Jo Lattari. Poi ci siamo dovuti fermare… Per fortuna sono stato molto attivo, da settembre a dicembre, all’Accademia nazionale d’arte drammatica ‘Silvio D’amico’ dove insegno da vari anni come artista a chiamata. Qui ho realizzato diversi progetti, esercitazioni degli allievi registi, un saggio di diploma del corso degli allievi attori».
Hai mai lavorato davanti ad una platea vuota?
«L’ho fatto già, molti anni fa, per Le cinque rose di Jennifer su testo di Annibale Ruccello di cui ho curato la regia teatrale dove con la Rai si decise di dargli una impostazione molto cinematografica, girammo oltre una settimana, senza pubblico, con le telecamere che entravano nella scena, è stato un tipo di lavoro che non avrei mai potuto fare con il pubblico in sala. In seguito con la regia televisiva di Mario Martone e la regia teatrale di Carlo Cecchi ho interpretato Finale di Partita di Samuel Beckett, e anche lì si optò per girare in un teatro vuoto. Per La scuola delle mogli c’è stato poco da scegliere, o il teatro era vuoto o era vuoto, per cui abbiamo trasformato il palcoscenico in set. Non fingiamo di recitare di fronte ad un pubblico presente, abbiamo lavorato a misura di telecamere, per uno spettacolo che offre punti di vista diversi da quello canonicamente frontale di una sala teatrale. La scuola delle mogli rimane comunque uno spettacolo fortemente in dialogo con il pubblico, non esiste la cosiddetta quarta parete».
La scuola delle mogli è grande classico ma di grande modernità. Cosa conquista, ancora oggi, di questo testo?
«Come italiani, siamo avvantaggiati rispetto ai francesi perché non siamo obbligati a mettere in scena i versi alessandrini rimati originali di Molière. La bellissima traduzione di Cesare Garboli, che ha reso una lingua viva alta e molto contemporanea, aiuta molto a non creare dei diaframmi tra il testo e chi lo ascolta oggi. Anche scene e costumi di questo allestimento non sono ispirati ad un’epoca specifica. Tutto questo aiuta a far emergere l’attualità dell’argomento. Molière è stato un grandissimo indagatore del lato malato dell’amore, e qui c’è una donna succube di un uomo che la domina totalmente sul piano economico, culturale e psicologico: lui nobile, ricco e potente, lei giovanissima e molto povera, vittima di un esperimento sociale che la vuole trasformare in una moglie perfetta. Una trama che mi ricorda fatti di cronaca anche recenti, come la vicenda di Natasha Kampush, la ragazzina rapita nel 1998 all’età di 10 anni e che riuscì a fuggire dopo otto anni di segregazione. Senza arrivare in Austria, sappiamo che anche in Italia la violenza domestica è aumentata moltissimo»..
Qui però c’è un lieto fine.
«Parliamo di una commedia e non di tragedia, e nello stile del tempo Molière non poteva fare altrimenti. Nel mio spettacolo, però, il finale è aperto, la ragazza sposa il suo giovane innamorato ma si volta indietro… forse c’è un legame con il suo carceriere, un amore malato. È l’attualità di Molière in cui i piani sentimentali ed erotici sono più ricchi di sfumature di quanto pensiamo».