ANCONA – Tutto esaurito, lunedì sera (5 dicembre), al teatro delle Muse di Ancona, in occasione della rassegna filosofica ˈFestival del pensiero pluraleˈ. Ospite dell’incontro (inizialmente previsto per il 9 novembre ma slittato a causa del terremoto) il filosofo e psicanalista di fama internazionale, Umberto Galimberti, che ha discusso con il pubblico del tema della verità. Intervistiamo il professor Galimberti il giorno dopo la sua conferenza. Ci incontriamo nella hall dell’Hotel Palace di Ancona, sul lungomare cittadino. Il filosofo scende dalla sua stanza con l’ascensore del residence ed esordisce così: «Facciamo presto, ho tanto lavoro da sbrigare».
Professore, che rapporto ha con Ancona?
«Ci venivo da giovane per prendere il traghetto, ma non l’ho mai visitata».
E con le Marche?
«Non c’è alcuna relazione affettiva. Quando mi invitano vengo, così come faccio per qualsiasi altra parte d’Italia».
È più filosofo o psicanalista?
«Più filosofo. Gli psichiatri devono imparare dai filosofi a fare il loro lavoro. Sono stati i filosofi a cambiare la psichiatria, non gli psicologi».
A chi si riferisce?
«A gente come Husserl, Heidegger e Jaspers, il più grande psicopatolgo e poi filosofo. Sono loro che hanno stabilito che la psiche non è altro che il rapporto che io ho col mio mondo-ambiente».
Ne ˈIl libro delle emozioniˈ, scrive di Platone, che privilegia la mente rispetto al cuore. Chi vince tra mente e cuore?
«Il cuore, perché la mente è una razionalizzazione dei movimenti che accadono nel cuore, cioè nell’impianto emotivo. Le emozioni nascono nel cervello antico, che abbiamo sotto la corteccia celebrale, che abbiamo in comune con gli animali. Da un lato, le emozioni sono interessanti in quanto rispondono a un rapporto col mondo, ma dall’altro vanno controllate perché se dovessi affidarmi solo alle emozioni sarebbe un disastro».
Chi prima ricorreva alla psicoterapia era considerato uno squilibrato, un pazzo. Oggi, invece, c’è più libertà di andare in psicanalisi e di parlare di salute mentale. Cosa è cambiato?
«In terapia ormai sono solo le donne a essere in grado di trarre frutti, perché hanno psiche. Gli uomini di oggi sono così elementari che quando vanno in psichiatria non vogliono conoscere sé stessi, ma risolvere i loro problemi momentanei. Per loro, la psichiatria è un problem solving, mentre le donne solitamente preferiscono conoscere sé stesse e sono idonee a fare psicoterapia. Poi, per fare psicoterapia ci vuole un minimo di cultura. E siccome in Italia il livello culturale si abbassa ogni giorni di più, allora avremo sempre meno persone idonee a farsi curare, perché curare in ambito psichico significa conoscere sé stessi».
La gente ha interesse a conoscere sé stessa?
«Mi pare proprio di no».
Lei è mai stato in psicoterapia?
«Beh, ovvio. Per diventare psicanalista devi fare almeno 10 anni di sedute psicanalitiche».
E si è conosciuto?
«Non solo. Poi, sono andato in manicomio 3 anni, per vedere le cose in grande. Non puoi conoscere le nevrosi se prima non vedi le psicosi, cioè la pazzia allo stato puro».
Cosa le hanno insegnato i suoi pazienti?
«Niente. Loro ti pongono i loro problemi e tu li aiuti a risolverli, dando loro gli strumenti. I soliti psicanalisti tacciano e la psicanalisi così non finisce mai. Io invece parlo molto, in modo che in 1-2 anni siano strumentati per affrontare la vita».
Lei oggi ha 80 anni: chi era il giovane Umberto Galimberti?
«Esattamente quello che sono oggi. Ho passato la vita a studiare e a furia di studiare, poi, qualcosa finisci col saperla».
Ha rimpianti?
«Sì, quello di aver solo studiato. Sono in credito col mondo della vita, che deve restituirmi qualcosa».
Cosa vuole?
«Niente. Non sopporto le masse, gli applausi. Finita la conferenza, me ne vado subito».
È schivo?
«No, mi interessano solo i rapporti duali, in cui c’è intensità di comunicazione».
Lei ha detto di non essere un pacifista.
«Infatti. Chi non vuole la pace? Ma finché i pacifisti non mi mostrano come si fa ad avere la pace, questa è una parola vuota, è retorica. Se la Russia depone le armi finisce la guerra, se l’Ucraina depone le armi finisce l’Ucraina».
Ha paura della morte?
«Non ho paura di niente, ho una mentalità greca. La morte è ciò che ci attende senza speranza ultraterrena. La morte è la segnaletica del limite, per cui i greci conducono una vita senza trapassare il loro limite. E chi conosce il suo limite non teme il destino».
E noi conosciamo i nostri limiti?
«No. I greci avevano incatenato Prometeo, dio della tecnica. Noi lo abbiamo scatenato e ora la capacità di fare con la tecnica supera la nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare e quindi stiamo muovendoci a mosca cieca».
È sorpreso di vedere i giovani in platea?
«Mi vogliono bene, perché pare sia l’unico che li abbia interpretati. Ho fatto loro sapere che vivono nell’età del nichilismo. Manca lo scopo, Il futuro per loro è una minaccia, è imprevedibile e non retroagisce come motivazione. Perché devo lavorare, studiare o stare al mondo se il futuro non è davanti a me come attrazione ma come minaccia? Si drogano e bevono non per il piacere della sostanza, ma per anestetizzarsi dall’angoscia che provano quando pongono lo sguardo sul futuro».
Lei dice che i genitori di oggi non devono dire ˈai miei tempiˈ perché per loro il futuro era lì ad attenderli; oggi no…
«Padri e madri di oggi hanno vissuto in un’epoca in cui il futuro era aperto. Io nel 1964 facevo il quarto anno di università, non ero ancora laureato e già insegnavo filosofia al liceo, perché non c’erano filosofi. Se uno oggi si laurea in filosofia deve sapere che non insegnerà mai filosofia. Il futuro è spento».
Perché ci muoviamo nella vita?
«Perché qualcosa ci attrae e non perché qualcuno ci spinge. E se i giovani non hanno nulla che li attrae, cosa dovrebbe fare?»
Cosa direbbe a un genitore di oggi?
«Di parlare molto coi loro figli dagli 0 ai 12 anni. Poi, le parole di padri e madri diventano vane. E quindi devono parlare prima e per quello che hanno detto prima avranno gettato semi che magari costruiscono meglio un ragazzo di silenzi e litigate».
E ai figli?
«Dico che il futuro è vostro: prendetevelo, datevi da fare. Nel ‘68 i giovani si sono presi il futuro cambiando le forme della società. Da autoritaria e della disciplina è diventata più libera».
Come si prende il futuro?
«Ognuno segua la sua strada, trovi la sua inclinazione, ciò per cui è nato».
ˈIl nazismo è il teatrino di provincia rispetto alla tecnicaˈ.
«Lo disse Gunther Anders, un ebreo scappato in America per evitare le persecuzioni. E con questo intende che il nazismo è stato un modello dell’età della tecnica, perché la tecnica, al pari del nazismo, dice di eseguire le azioni descritte e prescritte dall’apparato. Se sei in banca e il tuo capo ti ordina di vendere mille titoli deteriorati non è interessante se tu sei o meno d’accordo. Devi eseguire, come capitava in epoca nazista».
Come il That’s my job detto al New York Times da colui che sganciò le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki…
«Esattamente. Disse semplicemente ˈThat’s my jobˈ (tradotto: Questo è il mio lavoro, ndr)».
Cosa bisogna capire?
«Che la responsabilità a partire dal nazismo, e soprattutto nell’età della tecnica, è solo verticale e mai orizzontale di fronte alla persona che hai davanti».
Lei ha ancora speranza nell’umanità?
«La parola ˈsperanzaˈ non è più nel mio vocabolario».
Lo disse il poeta Pier Paolo Pasolini, prima di lei…
«Sì, ˈsperanzaˈ è un palliativo inutile a cui si affida la gente che non accetta (e rifiuta) di essere in un’età nichilista, perché non vuole vedere la realtà. Ogni volta che sento politici dire ˈsperiamo, ci auguriamo e auspichiamoˈ stanno dicendo ˈstiamo fermi perché il futuro porterà rimedio al presenteˈ. E invece no. Il futuro non porterà alcun rimedio se non ti dai daffare. Bisogna agire nella vita. Il senso della vita è quello che hai fatto».
Ho terminato, grazie. La lascio al suo lavoro…
«Sì, ne ho tanto».