ANCONA – Più precarie, pagate meno dei colleghi uomini e con poche prospettive di carriera. È la fotografia sulla condizione della donna nel mondo del lavoro scattata da Loredana Longhin, segretaria regionale di Cgil Marche, all’indomani della festa dei lavoratori.
«La situazione è abbastanza impietosa e deludente – dice – e rispecchia il mercato del lavoro marchigiano in cui è proprio la donna a subire maggiormente la precarietà, ad essere inquadrata ai livelli più bassi e a guadagnare di meno rispetto agli uomini. Non si sta investendo in occupazione femminile, nonostante sia ben noto che si riuscirebbe a guadagnare anche sei punti di pil».
Dall’analisi dell’Ires Cgil basata sui dati dell’ultimo Rapporto sul Personale maschile e femminile 2020 – 2021 delle aziende marchigiane con oltre 100 dipendenti, emerge che le donne con contratti part time sono il 45,4% contro il 7,9% di uomini, «una precarietà che dà origine a un gap salariale che in futuro sfocerà anche in un gap previdenziale». Non solo: analizzando i livelli di inquadramento ad arrivare alle posizioni apicali (ruolo di dirigenza) è solo lo 0,03% delle donne nelle Marche su 24.430 dipendenti.
«Non si riesce a sfondare il tetto di cristallo», spiega Longhin, che rileva come «le donne nel privato lavorino spesso nelle cooperative sociali» e si occupino di cura. Le donne impiegate dipendenti guadagnano un 39,4% in meno degli uomini e «solo 4 su 10 vengono formate nelle imprese, se mettiamo in fila tutti questi dati emerge chiara la volontà di non investire sulle donne».
Alla base di questo quadro secondo la segretaria regionale della Cgil c’è il fatto che «non si è mai investito in vere politiche per l’occupazione femminile, sono state messe in atto solo politiche di pink washing, di facciata, senza riuscire mai a scardinare il problema, ma per cambiare occorre agire sui più: sulla formazione, sull’integrazione delle politiche attive del lavoro con le politiche sociali. Non bastano i bonus baby sitter, servono servizi accessibili. Nonostante siamo nel 2023 si continua a replicare un modello vecchio di 50 anni in cui le donne stanno meno a casa rispetto al passato, perché part time, e gli uomini hanno il reddito principale».
«Collegato all’occupazione femminile c’è il tema della denatalità, in questa situazione le donne non fanno figli. Ma c’è anche un fattore culturale: nei Paesi del Nord Europa – conclude – per gli uomini è normale prendere il congedo di paternità, in Italia invece permane un’arretratezza culturale e se un uomo si assenta per sei mesi dal lavoro rischia di trovarsi male al rientro».