ANCONA – Il 94% delle aziende marchigiane ha adottato le misure di sicurezza previste per evitare la diffusione del covid-19, il 65% ha optato per ingressi e uscite scaglionati e il 75% si è adeguato sul fronte del distanziamento sociale, ma solo il 14%, ha provveduto a sottoporre a test sierologici il personale e solo un terzo di loro ha coinvolto il medico competente nella definizione delle misure.
È un quadro fra luci e ombre quello che emerge dal report di Cgil Marche sulle misure adottate nelle aziende per garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori nella fase 2. L’indagine è stata illustrata questa mattina ad Ancona nella sede regionale di Cgil Marche alla presenza della segretaria generale Daniela Barbaresi e del segretario regionale con delega alla sicurezza sul lavoro Giuseppe Santarelli.
Il report, realizzato attraverso un questionario su un campione di 261 intervistati, occupati in aziende dove si contano 37mila dipendenti, ha messo in luce punti forti e criticità nella gestione della fase due. Se da un lato il 63% degli intervistati ha dichiarato che il protocollo di sicurezza, adottato dalla maggior parte delle imprese in cui è stata condotta l’indagine, è stato condiviso con i rappresentanti dei lavoratori, dall’altro lato «preoccupa il fatto che in un’azienda su quattro le misure adottate non siano state concordate con il sindacato e non è stato costituito il comitato di sicurezza, o se costituito non vede la presenza dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza né delle Rsu. Ci sono una serie di nodi da risolvere come ad esempio l’attuazione dello sdoppiamento della turnistica per evitare troppe persone nello stesso ambiente di lavoro, oppure i test sierologici eseguiti in poche aziende», spiega Daniela Barbaresi.
Inoltre, come evidenzia Giuseppe Santarelli, solo un terzo degli intervistati ha ha fatto ricorso al medico competente per definire le misure da adottare, «un dato preoccupante per i lavoratori, dal momento che è una figura fondamentale».
Fra le principali misure adottate dalle aziende ci sono nel 94% dei casi la fornitura dei dispositivi individuali di sicurezza come mascherine, guanti, occhiali, indumenti e nell’84% dei casi i dispenser di detergenti a base alcolica per disinfettare le mani.
Il 79% delle aziende ha eseguito la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica degli ambienti di lavoro, nel 75% dei casi si sono adeguate per il rispetto del distanziamento sociale, mentre il 65% delle aziende ha scaglionato ingressi e uscite, meno diffusa è l’aerazione dei locali (22%). Piuttosto capillare l’informazione data dalle imprese sul protocollo e sulle misure di sicurezza adottate in azienda (81%),
Lo smart working è stato scelto dal 60% degli intervistati per limitare il rischio di una possibile diffusione del virus, mentre nel 60% dei casi si è optato per orari differenziati, grazie anche al ricorso agli ammortizzatori sociali, mentre solo il 19% delle aziende ha ridefinito gli orari in maniera più impattante sull’organizzazione del lavoro. Il 17% delle imprese ha invece deciso la chiusura di reparti.
Poche le imprese che sono ricorse allo strumento dei test sierologici o dei tamponi per sondare una eventuale positività: misure adottate solo dal 14% degli intervistati. Le mense sono state chiuse invece nel 22% dei casi.
Secondo Daniela Barbaresi, «l’attenzione sul tema della salute e della sicurezza va tenuta alta per evitare che siano i lavoratori a pagare il prezzo della ripartenza. Occorre procedere alla piena attuazione del Protocollo firmato con la Regione Marche, l’Anci e le associazioni datoriali a partire dalla raccolta dei protocolli aziendali, attraverso la piattaforma Marche Prevenzione dell’Asur, cominciando da quelli delle realtà aziendali di minori dimensioni dove non c’è la presenza del sindacato».
«Le imprese – conclude – devono superare le vecchie rigidità, garantendo il pieno coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori, riconoscendone e valorizzandone il contributo di conoscenze, esperienze e proposte».