ANCONA – «Spaventati e traumatizzati, alcune volte anche feriti». Arrivano solitamente in queste condizioni i migranti minori non accompagnati dopo essere stati salvati dalle acque dalle navi umanitarie, dopo la fuga dai loro paesi di origine. A raccontare la loro situazione è la dottoressa Francesca Mancia, psicoterapeuta dell’età evolutiva che spesso ha partecipato a progetti di accoglienza di minori accompagnati sia per l’Asur Marche sia per la Società Psicoanalitica Italiana. Sono 28 i migranti minorenni che arriveranno ad Ancona dopo un viaggio durato almeno quattro giorni e dopo essere stati salvati da un naufragio: 12 sono già sbarcati ieri sera (10 gennaio) a bordo della Ocean Viking (IL VIDEO), i restanti 16, ospitati dalla Geo Barents, dovrebbero invece arrivare tra stasera e giovedì mattina.
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I minori non accompagnati che viaggiano a bordo delle due navi umanitarie trascorreranno la prima notte ospitati in una struttura della Caritas a Senigallia, un ex albergo, che è stato messo a disposizione. L’accoglienza dei migranti segue un doppio binario che è differente in base alla maggiore o minore età dei naufraghi: la Prefettura di Ancona, oltre a coordinare la macchina dei soccorsi una volta che le due imbarcazioni saranno giunte alla banchina 22 del porto di Ancona e la prima accoglienza dei migranti che avverrà nei container riscaldati allestiti davanti all’approdo, ha lavorato in maniera prioritaria all’ospitalità dei minori non accompagnati.
Si tratta di bambini e ragazzi che vivono un’esperienza molto complessa, per giunta da soli, senza una figura famigliare di riferimento. «Solitamente – spiega la dottoressa Mancia – quello che osserviamo è che si sentono abbandonati a loro stessi e sono molto preoccupati. Arrivano spesso con alle spalle una lunga esperienza di navigazione in mare, presentano problematiche legate allo stress delle condizioni in cui hanno viaggiato e a quelle vissute nel Paese da cui provengono e per le quali sono scappati. Accanto a questi vissuti problematici si affianca anche la sensazione di non essere voluti dai Paesi in cui arrivano».
«Negli anni ho potuto osservare esperienze molto traumatizzanti in questi minori – prosegue -, fra le quali la perdita di un genitore in mare durante il viaggio: hanno delle storie da raccontare e che è importante che raccontino, ma che non sono pronti a riferire subito, occorre fare un avvicinamento graduale successivo, improntato ad una grande sensibilità verso la loro situazione».
Solitamente sono ragazzi e bambini che non parlano la lingua italiana per questo vengono affiancati da mediatori linguistici e poi si cerca di ricostruire, in Italia o in Europa, una rete di contatti familiari e amicali a cui possono far riferimento ed essere riavvicinati: spesso capita che i capifamiglia siano già in Italia o in altri paesi Europei e che gli altri arrivino dopo, mentre quando sono molto piccoli possono essere collocati in case famiglia. In genere – spiega – si motivano molto nel momento in cui accedono alle autonomie personali, alla cura della propria persona, al contatto con i propri riferimenti in Italia».
Per quanto riguarda l’iter seguito da questi ragazzi subito dopo l’arrivo ai porti che li accolgono, c’è una prima fase di censimento e accertamento sanitario, oltre che di protezione. «Fin da subito si attiva un sistema di tutela e monitoraggio tramite legali – chiarisce la dottoressa Mancia -, oltre che di screening sanitario e psicologico per rilevare eventuali problematiche e curare eventuali ferite o problematiche dermatologiche, spesso comuni in questi casi».
Ed è proprio in base alle condizioni sanitarie emerse dagli screening e dagli accertamenti medici, che vengono scelte le strutture in cui saranno successivamente collocati, «sempre comunità per minori non accompagnati, ottimamente preparate per gestire il dramma di questi ragazzi». «Dai primi momenti si cerca di accudirli, di dar loro abiti puliti e la possibilità di lavarsi, di riposare e di rifocillarsi, successivamente una volta che sono usciti dallo stato di ‘freezing’, ovvero di ‘congelamento’ traumatico – prosegue – , cerchiamo di farli raccontare le esperienze traumatiche che hanno vissuto e che sono solitamente molto complesse». «Hanno bisogno – conclude – che un adulto preparato sia testimone delle loro storie, di raccontare e di avere dignità di narrazione».