ANCONA – «Il magro per la Vigilia e l’apoteosi della carne e del grasso per il giorno di Natale». Si snoda su questi due filoni la tradizione culinaria legata alle festività natalizie nelle Marche. A raccontarci piatti tipici e simbolismi legati alla cucina del periodo più atteso dell’anno, è il professor Tommaso Lucchetti, storico della cultura gastronomica dell’Università degli Studi di Parma.
Periodo magico, ricco di calore e di ricette tipiche, tramandate dalle nonne su pagine ormai ingiallite dal tempo, tra i piatti protagonisti della tavola nella giornata della Vigilia l’ingrediente principe era il pesce. Nelle Marche si usava mangiare pesce conservato, un piatto povero, che essendo essiccato, poteva conservarsi più a lungo e raggiungere facilmente località più lontane dalla costa, come l’entroterra. Le nostre nonne servivano in tavola “sua maestà” lo Stoccafisso e il Baccalà, cucinato con le patate e gli aromi dell’orto, in un tripudio di sapori che ancora oggi tocca le corde del cuore.
«Abbiamo memorie di campagna dove lo stoccafisso era comprato e tenuto nel pozzo ad ammollare», spiega Tommaso Lucchetti. Simbolo gastronomico per eccellenza del capoluogo è lo “Stoccafisso all’Anconitana”, una tradizione che ancora oggi rievoca la storia delle navi che dal porto di Ancona si spingevano fino ai fiordi norvegesi per tornare a casa con le stive piene.
Ma la giornata della Vigilia si contrassegnava anche per i preparativi in attesa del pranzo di Natale: le massaie, chiamate nelle Marche “Vergare” preparavano i cappelletti e il brodo di cappone. Il giorno precedente il Natale «era molto importante mettere a cuocere il cappone» il cui brodo, secondo la tradizione «doveva essere tenuto tutta la notte davanti alla finestra» così da assumere «una valenza magica» racconta lo storico della gastronomia.
Tra le verdure protagoniste del menù natalizio, oltre a broccoli e finocchi c’erano i cardi. Questi ortaggi, chiamati anche “gobbi” per la caratteristica forma, «avevano una importanza particolare nella simbologia artistica dei dipinti» evidenzia Lucchetti, i cardi «ripiegandosi su se stessi durante la crescita» sono rappresentano il concetto di «umiltà, dell’andare verso la terra, che è quello che fa Gesù nascendo dentro una stalla. Oltre alla spina dei gobbi che rimanda a Cristo, al sacrificio e alla Crocifissione, la simbologia di questo ortaggio è che era vissuto, assieme all’arancio come caratteristico di questo momento, con la frutta secca e all’uva messa ad essiccare».
Una delle tradizioni del mondo contadino, era infatti proprio quella di mettere ad essiccare l’uva, dopo la vendemmia, così da poterla mangiare a Capodanno. La lenticchia, infatti, non è una tradizione marchigiana, ma «nordica, dove tendevano ad associare le lenticchie alle monetine di bronzo per la loro forma» spiega lo storico Tommaso Lucchetti, autore di numerosi libri sulle tradizioni gastronomiche: «Poi con l’Unità d’Italia c’è stata una omologazione» che ha portato alla diffusione di alcune tradizioni tipiche di una zona, anche ad altre aree del Paese. Nelle Marche l’usanza prevede che il «cotechino venga mangiato con i fagioli o la cicerchia e non con la lenticchia».
Ricca anche la tradizione dei dolci, che non potevamo mancare sulla tavola delle feste. Una tradizione che parte da ingredienti semplici e poveri come il pane, a cui veniva aggiunto quanto di più buono si poteva avere nella dispensa: frutta fresca, frutta secca e cioccolata andavano ad arricchire questi dolci tradizionali. Il più tipico, quello che accomuna le Marche dal Nord al Sud, è il Frustingo, una antica ricetta che risale addirittura agli Etruschi e che ne fa il dolce più antico delle Marche e dell’Italia. Fichi, frutta secca, frutta candita, liquore, il Frustingo è il cosiddetto «dolce svuota credenza» un trionfo di sapori e tradizioni.