ANCONA – Un’esperienza forte, emozionante, che cambia la vita. Dopo la missione in Africa nel centro disabili di Tuuru si torna a casa con la gioia nel cuore donata dai sorrisi dei bambini. Sono sei i volontari anconetani che lo scorso 12 gennaio sono partiti per due settimane per la missione in Kenya, organizzata dalla parrocchia Cristo Divino Lavoratore di Posatora. Il centro disabili di Tuuru è gestito dalle suore del cottolengo di Torino: accoglie oltre cento bambini con problemi psico-fisici da 1 a 10 anni, che hanno possibilità di miglioramento. Tra i servizi: assistenza, fisioterapia riabilitativa e attività educative. Il centro dispone anche di un laboratorio-officina per riparazioni e confezione ad esempio di tutori, carrozzine, scarpe, stampelle.
Tuuru (Kenya) si trova a 1.800 metri sul livello del mare, è un villaggio povero nel distretto di Meru, a circa 350km da Nairobi, situato ai piedi del monte Kenya. Il gemellaggio della Parrocchia Cristo Divino Lavoratore con questa missione è iniziato nel febbraio 2009. Oltre al volontariato è possibile fare beneficenza, con le adozioni a distanza e contribuendo, ad esempio, all’acquisto di ausili ortopedici. Massimo Meles, uno dei sei volontari partiti in missione, racconta a CentroPagina.it la sua toccante esperienza.
Signor Meles, come mai ha deciso di andare in missione in Africa ad aiutare i bambini con disabilità?
«Parte tutto dal desiderio di aiutare le persone bisognose. È il frutto di un cammino che ho intrapreso sin da ragazzo come cattolico praticante. Mia figlia, che frequenta la parrocchia di Don Giancarlo, mi ha parlato della missione e così, adesso che sono in pensione, siamo partiti».
Che cosa avete portato dall’Italia?
«Ognuno di noi è partito con due valigie: una con i propri effetti personali e l’altra per i bambini, con scarpine e vestiario».
Come è stato il viaggio per arrivare alla missione?
«È stato faticoso, per arrivare a Tuuru abbiamo impiegato due giorni. A Nairobi siamo saliti a bordo di un pulmino e ci siamo diretti per 330 km verso nord. La strada percorsa era asfaltata ma piena di dossi. Bisogna fare attenzione perché in Africa tutto si svolge attorno alla strada: ci sono capanne, scuole. Abbiamo impiegato 7-8 ore per arrivare».
Che sensazione ha provato appena arrivato?
«Al primo impatto con i bambini il cuore ha sobbalzato. Ho pensato: “Riuscirò a dargli qualcosa?”. Ma poi, invece, sono stati loro a donare qualcosa di grande a noi. Molti sono stati abbandonati. Difficilmente parlano, non riescono a fare un discorso però comprendono».
In che modo ha dato una mano ai bambini?
«Io gli davo da mangiare. Piatti pieni di riso, polenta, verdure, lenticchie. La prima volta che l’ho fatto non nascondo di essermi messo a piangere. Aiutavo i bambini più piccoli e li accompagnavo a scuola, che si trova a circa mezzora dal centro. Durante la giornata stavamo con loro, gli facevamo compagnia e giocavamo. È stata una gioia ma allo stesso tempo una sofferenza».
Come era la giornata?
«La giornata era faticosa, facevo dagli 8 ai 10 km al giorno correndo da una parte all’altra del centro, è molto grande. Mi svegliavo alle 5.50, e alle 6.30 andavo alla messa. Poi verso le 8.30 iniziavamo a lavorare. Aiutavo le suore, andavo in officina e in falegnameria. Lì fanno tutto da sole, con poco, con quello che c’è. Gli ausili ortopedici per far camminare i bambini o per farli stare in piedi sono fatti con i ferri recuperati ad esempio dalle brandine. Non si butta via nulla, nemmeno la pellicola trasparente per coprire i contenitori del cibo. Una volta utilizzata, la lavavamo, la mettevamo ad asciugare e il giorno dopo la piegavamo e la riportavamo alle suore per riutilizzarla. Non si spreca nulla».
Che cosa le hanno lasciato questi bambini?
«I bambini mi hanno lasciato gioia e forza. La sera ero stanco fisicamente ma soddisfatto per aver contribuito a far trascorrere loro una giornata diversa dalla solita monotonia. Lì è come se fosse un piccolo angolo di paradiso con tanti angioletti. Vedere questi bambini con il sorriso, molti sono cerebrolesi dalla nascita, mi ha fatto capire tante cose. Sono persone che hanno bisogno ma che non ti chiedono nulla, solo attenzione, solo un sorriso. E ricambiano donando tanta gioia».
Nel centro disabili di Tuuru di che cosa hanno bisogno?
«Hanno bisogno di tutto. Mancano anche i guanti per far partorire le donne. Hanno bisogno di denaro, di materiale sanitario e soprattutto di tanto amore. Ci sono molte realtà di questo tipo che devono essere conosciute. Serve una cassa di risonanza. Abbiamo visto con il caso del medico malato (Lorenzo Farinelli ndr) che se le persone vengono sensibilizzate reagiscono».
Alcune immagini del centro
Che cosa ha imparato da questa esperienza?
«Ho imparato che dobbiamo mettere da parte il superfluo dal quale siamo circondati. Sbandieriamo valori che però nessuno mette in pratica. Lì ti accorgi che stiamo buttando via un bene che ognuno ha dentro di sé. Presi dal vortice delle cose ci dimentichiamo del vero senso delle nostre vite».
Che realtà ha trovato in Africa?
«È un mondo diverso. La povertà si tocca con mano. Al centro disabili l’acqua non è potabile e c’è un solo fornello. Il cibo che avanzava lo davamo alle suore perché qualcuno poteva passare e chiedere qualcosa da mangiare. Le case sono capanne. Nel villaggio Masai che abbiamo visitato c’era un recinto di rovi per difendersi dai leoni: il pericolo è reale. A Nairobi c’è caos, tutto il resto è fame».
Era preoccupato di partire visti i recenti rapimenti di volontari italiani in Africa?
«Io non ero preoccupato, mia moglie sì. Sapevo che sarei andato in un posto dove mi sarei trovato bene. Ci hanno detto di stare attenti e di stare sempre con le suore. Ci sono molti controlli lungo le aree di servizio».
Questa era la sua prima missione. Tornerà ancora in Africa?
«L’anno prossimo ci tornerò con mia moglie e resteremo per un mese».