ANCONA – Rende più difficile curare le malattie infettive e rappresenta una minaccia globale da non sottovalutare. Stiamo parlando dell’antibiotico resistenza, cioè della resistenza sviluppata da alcuni batteri nei confronti degli antibiotici che non riescono più a curare infezioni che prima erano in grado di guarire. Una condizione che pesa sulle strutture ospedaliere costrette a ricoveri più lunghi per i pazienti che l’hanno sviluppata.
«Un recente lavoro condotto negli ospedali italiani ha calcolato che sono circa 500 mila ogni anno le infezioni nosocomiali, ossia acquisite in ospedale, di cui la maggior parte da microrganismi antibiotico-resistenti – commenta il primario della Clinica di Malattie Infettive degli Ospedali Riuniti di Ancona, Andrea Giacometti -. Queste infezioni sarebbero responsabili di circa 7 mila decessi all’anno. Anche nel nostro ospedale registriamo casi di tale tipologia di infezioni, che viene costantemente sottoposta a monitoraggio».
Infezioni da batteri multiresistenti, che come sottolinea il primario, «sono acquisite spesso in strutture sanitarie territoriali, dove è più difficile l’uso ottimale degli antibiotici e l’applicazione delle misure di isolamento». Insomma, la grande maggioranza dei pazienti affetti da infezioni da batteri multiresistenti «arrivano nel nostro nosocomio già contagiati».
Perché si sviluppa l’antibiotico resistenza?
«È un fenomeno naturale che i batteri e altri microrganismi mettono in atto per adattarsi all’ambiente che li circonda – prosegue -. In pratica si tratta di selezione naturale: fra l’immensa moltitudine di batteri che si sviluppano ogni giorno, ce ne sono alcuni con mutazioni genomiche nel Dna che consentono di resistere agli antibiotici». “Mutanti” naturali riescono a crescere bene anche in presenza di antibiotici, per cui in breve tempo soppiantano le altre popolazioni batteriche che invece sono rimaste sensibili ai farmaci.
Attualmente a preoccupare più di tutti sono i batteri cosiddetti “Gram-negativi”, i più resistenti agli antibiotici, come Klebsiella pneumoniae (implicata nelle polmoniti e nelle infezioni alle vie urinarie), Acinetobacter baumannii (infezioni respiratorie), Pseudomonas aeruginosa (polmoniti ed endocarditi), Escherichia coli (spesso responsabile di infezione della vescica). Termini complessi per descrivere germi che crescono rapidamente e hanno una alta capacità di divenire resistenti.
La resistenza agli antibiotici si genera sia perché non vengono creati più nuovi antibiotici, dal 2017 ne sono usciti solamente 2, sia perché se ne fa abuso. Sono molte le persone che li assumono “di testa propria” e in maniera non corretta, ma spesso se ne abusa anche negli ospedali per combattere la diffusione delle infezioni. A prescriverli eccessivamente sono anche medici e pediatri di famiglia: tra i maggiori “consumatori” ci sono i bambini fra 0 e 13 anni e anche gli over 75. In ogni caso l’Italia è il Paese in cui si consumano più antibiotici rispetto agli altri Stati europei, mentre per l’impiego in zootecnia, cioè negli allevamenti intensivi, siamo secondi dopo Cipro. Un impiego che «pesa moltissimo, ancora» osserva il primario.
Gli antibiotici vengono impiegati nell’allevamento di polli, bovini, suini, tacchini, ovini e conigli e in questo modo una “bella dose” di antibiotici, insieme ai batteri resistenti sviluppati dall’animale, finiscono nella catena alimentare dell’uomo, senza contare i liquami degli allevamenti dispersi nell’ambiente che creano inquinamento.
Anche se alcune aziende iniziano finalmente ad allevare animali di piccola o grande taglia senza usarli, la strada da compiere è ancora lunga, evidenzia il professor Giacometti: «Questi farmaci, e non solo questi: pensiamo anche agli ormoni, consentono di allevare grandi quantità di animali e quindi di poter disporre di carni a prezzi contenuti. Cosa accadrebbe se la disponibilità di animali da allevamento si riducesse drasticamente?».
Ma il primario fa anche una ulteriore considerazione sulle campagne pubblicitarie che invitano a non usarli e che ritiene possa «essere ingannevole». Una affermazione che motiva spiegando che «per gli animali di grossa taglia viene riferito che, affinché non restino tracce di farmaco nelle carni macellate, la somministrazione di antibiotici viene sospesa quattro mesi prima della macellazione». Secondo il professore però anche se «non troveremo tracce di antibiotico nella carne» in ogni caso «il danno ambientale resta, perché questo è causato dall’immenso numero di batteri resistenti che gli animali hanno emesso, soprattutto dall’intestino, nei mesi o anni in cui sono cresciti in allevamento».
Con l’introduzione della ricetta elettronica, utile anche a tracciare i farmaci usati per ogni singolo animale, c’è stata una sorta di stretta in questo senso perché il passaggio dei dati è immediato tra veterinario e Asur, anche se una fetta di allevatori sfugge al controllo per colpa del mercato nero dei farmaci.
Il punto di vista dell’allevatrice
«Noi non usiamo antibiotici per allevare animali – spiega Silvia Bonomi, allevatrice di Visso (Mc) di pecora di razza Sopravissana -, ma anche nei casi in cui li abbiamo usati lo abbiamo fatto sotto stretto monitoraggio dei medici veterinari».
Insomma, quando sono necessari a curare l’animale l’allevatore chiama il veterinario e, se questo lo somministra, viene riportato sul registro di stalla insieme al numero dell’animale e la data, indicando i relativi tempi di sospensione. Informazioni che finiscono alla banca dati nazionale dove risulterà che l’animale è stato sottoposto al trattamento e quindi per 40 giorni non può essere macellato, né trasportato al mattatoio. Insomma secondo la Bonomi i controlli sono molto rigidi a tutela dell’animale e dell’uomo. «Gli antibiotici vanno utilizzati solo sotto prescrizione del medico veterinario» conclude l’allevatrice.
Come combattere l’antibiotico-resistenza?
Il problema va affrontato su diversi fronti, secondo il primario di Torrette, utilizzando «di meno e più razionalmente gli antibiotici, soprattutto quelli di ultima generazione. Qui inevitabilmente sorgono questioni di ordine etico, non ultime quelle circa l’accanimento terapeutico, e il medico non deve trovarsi solo nell’affrontare queste problematiche, il legislatore deve intervenire». Altro punto nodale, il fatto di «poter applicare all’occorrenza tutte le misure di isolamento in ospedale, nelle residenze sanitarie e in tutte le altre strutture territoriali dove vengono ospitati soggetti “fragili”, a maggior rischio di acquisire infezioni»
Secondo il primario occorre investire in strutture e personale, anche se è «più facile a dirsi che a farsi», ma è necessario anche limitare o abolire l’uso degli antibiotici negli allevamenti e nell’agricoltura, «accettandone però le possibili conseguenze, quali una minor disponibilità di risorse alimentari». «Credo – conclude – che anche qui siano necessari forti investimenti per incrementare l’uso di tecnologie che potrebbero permettere la lotta ai parassiti mediante nemici naturali degli stessi, la selezione di animali e piante più resistenti agli eventi naturali o anche la possibilità di allevare gli animali in condizioni più igieniche e meno barbare».