ANCONA – Secondo un report dell’Istituto superiore di sanità, intitolato «Focus sull’età evolutiva» e consegnato a fine febbraio al Comitato tecnico scientifico, per la prima volta dall’inizio della pandemia, a gennaio e febbraio, l’incidenza dei casi tra gli under 20 avrebbe superato le altre fasce di età. Il record è nei 14-19 anni, con poco meno di 200 casi ogni 100mila persone.
A finire sul banco degli imputati il ritorno in presenza a scuola di gennaio, ritenuto da molti un vettore che avrebbe favorito la recrudescenza dei contagi. A giocare un ruolo da protagonista sarebbe stata la temuta “variante inglese” del virus che, come sottolineato da Antonella Viola, professoressa ordinaria di Patologia generale all’Università di Padova, «colpisce anche fasce di età, come quella dei bambini e dei giovani, che finora erano rimaste fuori dal grosso dei contagi». Una variabile che ha obbligato Governo e Regioni a tornare sui propri passi, ricorrendo nuovamente alla didattica a distanza nelle zone dove i contagi sono elevati.
Dati alla mano, saranno oltre 6 i milioni di studenti che si ritroveranno da lunedì 8 marzo a seguire le lezioni a distanza. Sulla delicata situazione della scuola, noi di CentroPagina abbiamo chiesto lumi al Prof. Michele Contadini, laureato in filosofia e in teologia dogmatica, docente di religione presso l’IIS “Cuppari-Salvati” di Jesi, di Didattica generale e della religione presso l’Istituto Superiore Scienze Religiose delle Marche “Redemptoris Mater” di Ancona, di fenomenologia della religione presso la Libera Università degli Adulti di Jesi, nonché autore di saggi e articoli sull’educazione e di testi per l’insegnamento di religione nella scuola.
Dalla fine di gennaio l’incidenza dei casi di Covid-19 nella fascia sotto i 20 anni ha superato, per la prima volta dall’inizio della pandemia, quella delle fasce di popolazione più adulte, e a febbraio è rimasta leggermente più alta. Quanto ha inciso in tutto questo il ritorno sui banchi? E come giudica la scelta del ritorno in presenza a scuola?
«Prima di tutto chiarisco che il mio punto di vista è quello di un docente di scuola secondaria di II grado. Inoltre non sono un virologo e quindi non saprei se il ritorno a scuola ha inciso sull’aumento dei casi di Covid-19. Però senz’altro posso dire che molti invocavano la presenza senza tenere conto in modo adeguato del fattore sicurezza e della reale condizione della scuola. Non si trattava (e non si tratta) di invocare la presenza come principio dogmatico senza chiedersi quale tipo di presenza e quale qualità della didattica, in presenza, potevano essere garantiti. Studenti in quarantena, classi dimezzate, tamponi, classi numerose in spazi ristretti, sospensione di molte delle attività legate a progetti educativi trasversali alle discipline. Mi faceva storcere il naso chi invocava la presenza per la socializzazione. Ricordo il primo giorno in cui abbiamo ripreso in presenza (se non sbaglio il 25 gennaio) nelle classi numerose e del biennio è stato difficile richiamare gli studenti alla collaborazione e al rispetto delle regole emergenziali (distanza, mascherine, ….). Allora invocare la presenza va bene ma insieme a un ripensamento globale del processo formativo. Tornare a scuola nelle condizioni pandemiche (ma anche prepandemiche) senza un intento riformatore significa tirare a campare fino alla ‘morte’ per asfissia o burnout. Vogliamo partire da una regola semplice: non si possono più fare classi con un numero superiore di 20 studenti per classe. Questo comporterebbe come logica conseguenza l’assunzione di un numero adeguato di docenti».
Molti suoi colleghi reputano la DaD uno strumento inefficace nella formazione dei ragazzi. A quasi un anno dall’uso di questa nuova modalità di fare lezione, che idea si è fatto? Quali sono le difficoltà della DaD e quali i valori aggiunti, se ce ne sono?
«Non sono tra coloro che hanno demonizzato la DaD. E’ stato uno sforzo incredibile quello che la scuola ha fatto per superare il gap tecnologico in cui dall’oggi al domani si è trovata. Ci siamo organizzati, formati per garantire comunque un livello discreto del processo di insegnamento e apprendimento. Non è stato uno sforzo inutile, tutt’altro. Si è aperto un mondo sconosciuto ma alquanto interessante. Faccio un esempio, la DaD mi ha permesso di sperimentare la flipped classroom ossia una metodologia didattica che negli ultimi anni si sta positivamente diffondendo soprattutto nel mondo della scuola. Tale metodologia prevede un primo momento di apprendimento autonomo da parte di ogni studente e un secondo momento dove gli studenti sono chiamati, in aula, a presentare agli altri, sotto la guida esperta del docente, il frutto della loro ricerca. In DaD ho adottato questo metodo: porgo in anticipo una domanda stimolo articolata (sulla base della programmazione annuale) e in live lascio parlare loro dal primo all’ultimo. Il mio ruolo è quello di prendere appunti, precisare, chiedere ulteriori spiegazioni, collegare, dare ulteriori spunti di riflessione (un libro da leggere, un film da vedere, un documento da analizzare) ed elaborare in corso d’opera una piccola sintesi conclusiva. Contemporaneamente ho aperto un canale youtube per supportare tale lavoro con brevi video-lezioni registrate. Vi farei sentire cosa viene fuori. Il livello del confronto è elevatissimo. Mai stato così, parlano tutti e molti a proposito. In classe a scuola si era stretti dentro una scatola (compiti, voti, interrogazioni…) e parlavano solo i più audaci, i meno timidi o timorosi».
Da insegnante, quale pensa sarà l’impatto che avrà sui ragazzi e sul loro modo di approcciarsi alla scuola in futuro questa esperienza?
«Da tutto si può imparare a fare scuola al meglio possibile. Sicuramente posso dire che i giovani ancora una volta mi emozionano perché quando ci si fida di loro rendendoli protagonisti del processo e del dialogo educativo mettono in campo energie, riflessioni e comportamenti virtuosi. La scuola andrebbe totalmente ripensata, dovrebbe prevedere tante possibilità a seconda dei ragazzi e delle opportunità che vuoi dar loro: presenza, dad, tempi e spazi flessibili e destrutturati, peer education, aule disciplinari, unità di apprendimento interdisciplinari…».
Che effetto ha avuto invece su di lei? Come è cambiato, se è cambiato, il suo ruolo ed il suo lavoro?
«Per rispondere a questa domanda mi permetto di prendere in prestito le parole di Massimo Recalcati: “Ogni percorso di formazione si fa con quello che c’è e non con quello che dovrebbe idealmente esserci, si fa con il reale e non con l’ideale. Nel tempo del Covid noi tutti ci siamo confrontati traumaticamente col reale. Ogni formazione avviene attraverso i colpi impietosi del reale. Non c’è mai programmazione ideale, non c’è mai cammino rettilineo, non c’è mai semplice progressione. Questo tempo tremendo fa parte della formazione. Lo dobbiamo pensare come parte del processo formativo e non come un suo ostacolo. Come accade con la DAD. Giocoforza. Se aspettiamo la normalizzazione della vita della Scuola per fare esistere la Scuola siamo perduti”».
Secondo i dati ISTAT 2018-2019, il 30% delle famiglie italiane non ha un PC o un tablet in casa; il 41,9% dei minori vive in condizioni di sovraffollamento abitativo, per loro ritagliarsi uno spazio tranquillo per seguire le lezioni è quasi impossibile. Esiste una strada percorribile per ovviare a queste difficoltà?
«Anche le famiglie devono fare un passo avanti, la scuola non è un’azienda, ma nemmeno un asilo sociale. Deve tornare a funzionare il lavoro di squadra, un lavoro a rete per aiutare i nostri ragazzi a crescere, a diventare autonomi, a saper affrontare le asperità con tutte le energie possibili. Non è possibile a 14 anni non avere un computer e non saperlo utilizzare. Pensavamo di avere una generazione tecnologicamente avanzata e abbiamo scoperto che non sapeva inviare nemmeno una mail e allegare un file scritto in word. Chiaramente lo Stato deve fare la sua parte sostenendo le famiglie e le scuole nello sforzo economico di aggiornamento e mettendo i genitori nelle condizioni di poter seguire i propri figli anche nel processo di formazione perché non può esistere la delega in bianco e in toto ai docenti».