ANCONA – Mogli, madri, sorelle, amiche, donne in carriera, operaie, casalinghe. Sono numerosi i ruoli ricoperti dalle donne, anime sognatrici che hanno fatto grande il mondo e che, come contorsioniste, si muovo leggiadre districandosi tra mille impegni quotidiani. Protagoniste ormai in ogni ambito sociale, oggi le donne dopo mille battaglie si sono ritagliate un proprio ruolo e un proprio spazio che va ben al di là del solo impegno familiare, come accadeva in passato. Tutto questo grazie a un coraggio da vere leonesse, lo stesso coraggio che spinge molte di loro a fare scelte fuori dagli “schemi”.
Proprio in occasione dell’8 marzo, festa della donna, vogliamo raccontarvi la storia di una di queste audaci “muse”, una donna che ha scelto di vivere in clausura nel Monastero di Santa Speranza, proprio nel cuore di San Benedetto del Tronto. Lei è suor Maria Graziana, 50 anni, originaria del pesarese, vive nella comunità di monache clarisse da oltre 22 anni.
Una decisione forte e radicale per una donna di questi tempi, quella di scegliere la clausura. Cosa l’ha portata a scegliere una vita così diversa rispetto a quella condotta dalla maggior parte delle donne di oggi?
«Non è facile raccontare questa scelta, perché è sempre difficile raccontare la propria vocazione, è un po’ come dover spiegare perché si è scelto di sposare una persona invece di un’altra e spesso davanti a questa domanda si balbetta. La cosa che mi ha sempre colpito più di tutti della clausura è che questa vita paradossalmente mi poteva offrire un’apertura e una libertà che non avrei potuto avere conducendo un altro tipo di esistenza. Scegliere di vivere in monastero non è solo una scelta personale, ma è una chiamata che il Signore ci dona e come chiamata ha la caratteristica di offrire una possibilità di vita piena sperimentando altre situazioni, vivendo altre cose. Vivere il monastero riempie tutta la mia persona».
Cosa le da in più questa vita rispetto a un’esistenza per così dire “normale”?
«Prima di entrare in monastero ero impegnata in molte cose, fra le quali anche il volontariato. Mi sembrava che non dovessi fermarmi mai, che dovessi sempre continuare a essere a disposizione di tutti, però giocoforza viviamo un limite che è quello della giornata fatta di sole 24 ore, e in ogni caso non si riesce ad arrivare dappertutto, non si riescono a raggiungere tutte le situazioni. Ecco, scoprire che nella dimensione della preghiera e del dono a Dio di tutta la mia vita, io potessi arrivare ovunque, senza limiti né di tempo né di spazio, per me è stata una grande scoperta che mi ha affascinata e attirata a vivere questa vita.
La vita in un monastero è una vita di preghiera, ma questo non significa stare ogni giorno in ginocchio a mani giunte, significa invece che ogni gesto che si fa assume un significato più grande, non è solo lavare i piatti, stirare, incontrare una persona, andare in chiesa, ma è qualcosa di più. Non è solo il piccolo gesto immediato, ma dietro a tutto questo c’è un mondo di cose, di persone, di fatti, di situazioni, belle e meno belle, dove si può arrivare solo entrando dalla porta che è il cuore di Dio. Ovviamente questo è un discorso che un credente può comprendere, mentre chi ragiona solo in termini di produzione non può capire. Non è una scelta solo per sé, ogni vocazione non lo è, neanche quella del matrimonio che è sempre e comunque una scelta che coinvolge l’altro».
Com’era la sua vita prima di scegliere il monastero? Oltre al volontariato di che si occupava?
«Studiavo biologia all’Università di Urbino ma poi, quando ho scoperto che fare del bene agli altri faceva bene anche a me, ho lasciato gli studi per entrare in monastero. Da volontaria ho seguito diverse situazioni, dai poveri agli anziani fino ai malati».
La famiglia come ha reagito a questa sua decisione?
«Anche se la mia era una famiglia di cattolici praticanti, questa scelta è arrivata come un fulmine a ciel sereno. I genitori hanno sempre i loro progetti sui figli, tendono sempre a pensare alla posizione economica e sociale, quando invece accade che una figlia fidanzata e, quindi, già incamminata verso la strada del matrimonio, decide di entrare in monastero succede che fatichino ad accettarlo».
È stato questo il suo caso? Era fidanzata?
«Sì, è stato il mio caso».
E lui come l’ha presa?
«Entrambi stavamo facendo un cammino nel volontariato e un percorso che si stava caratterizzando nella fede cattolica; ovviamente c’è stato male, ma alla fine mi ha capita».
Quanto tempo siete stati insieme?
«Tre anni e mezzo».
Vi siete più sentiti?
«No, perché poi ognuno ha preso direzioni diverse».
Si è pentita della sua scelta o si sente appagata dalla vita del monastero?
«Non mi sono mai pentita. A volte possiamo essere più o meno affaticati dalle situazioni, ma questo fa parte della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne. Non esiste l’oasi della felicità, ma è una scelta che rifarei».
Come trascorre la giornata una suora di clausura?
«Il mattino iniziamo con le lodi, poi abbiamo la messa e un altro momento di preghiera che si chiama “ora terza”. Entriamo in chiesa intorno alle 6,30 e ne usciamo verso le 8,15. Dopo la colazione ci dedichiamo ai lavori di casa come cucinare, stirare, lavare, e poi è il momento di svolgere quei lavori che ci consentono di vivere: realizziamo abiti per la chiesa e per le comunioni, piccoli oggetti per bomboniere, icone e corone, tutte quelle cose che si fanno nei monasteri».
Come vi sostenete?
«Siamo clarisse, apparteniamo all’ordine francescano di Santa Chiara d’Assisi e quindi seguiamo la regola di vivere in comunità e in altissima povertà, dove povertà non vuol dire stare rattoppati facendo i miserabili, ma vuol dire sobrietà e consapevolezza che le cose che si utilizzano sono solo strumenti per vivere e non il fine ultimo della vita».
Tornando alla giornata, come prosegue?
«Alle 12,30 c’è il pranzo seguito da un momento di riposo per chi ne ha bisogno, poi alle 15,30 abbiamo di nuovo la preghiera e fino alle 19 ci ritiriamo nelle nostre celle per pregare, studiare o per riflettere».
Incontrate spesso persone esterne al convento?
«Sì, qui vengono in molti a chiedere preghiere, a cercare qualcuno con cui confrontarsi. Riceviamo anche gruppi delle parrocchie e movimenti. Organizziamo incontri ed eventi, tra i quali la scuola di preghiera la seconda domenica di ogni mese, frequentatissima da molte persone anche da fuori città.
Ogni primo sabato del mese c’è l’adorazione eucaristica e si resta in silenzio dalle 21,15 alle 24. Ma organizziamo anche delle serate sulla spiritualità invitando relatori. Siamo un monastero molto aperto e il fatto che ci troviamo al centro della città fa sì che le persone lo vedano come un luogo dello spirito».
Usate telefonino e social?
«Sì, abbiamo un telefonico e una pagina Facebook dove inseriamo gli eventi che organizziamo; inoltre tre volte a settimana mettiamo anche dei post con frasi di autori moderni, cristiani e non. Con il cellulare dialoghiamo, attraverso WhatsApp, inviando avvisi alle persone che ci seguono, ma usiamo anche mail e sms. Poi abbiamo anche una pagina nel sito della parrocchia di Sant’Antonio».
Alcune persone pensano che abbiate tagliato i ponti con il mondo esterno, ma è davvero così?
«Molte persone quando arrivano per la prima volta pensano di trovare un ambiente chiuso, ma non è così. Oggi la comunicazione è immediata, ma occorre guardare in faccia gli altri per comunicare altrimenti si rischia di parlare lingue diverse. Per noi è importante capire, perché le persone ci dicono cose importanti».
Cosa vi dicono?
«Molti ci raccontano le loro esperienze, chiedono consigli, oppure preghiere per sé stessi o per altri, perché malati o perché in situazioni particolari. Vengono anche gruppi di fidanzati che si preparano al matrimonio».
E cosa consigliate a queste coppie, visto che oggi molti matrimonio naufragano?
«Sì, sono moltissimi i matrimoni che finiscono. Offriamo una riflessione; da noi arrivano anche molti che hanno vissuto l’esperienza della separazione e del divorzio e che hanno bisogno di recuperare il senso dell’amore e di se stessi. I monasteri hanno un po’ questa funzione di essere luoghi dove si raccoglie il dolore interiore dell’uomo».
Le manca la maternità?
«Se per maternità si intende quella biologica, ovviamente noi questa non l’abbiamo avuta, mentre se si intende una maternità dove ci si prende cura dell’altro a tutto tondo, lo si difende e lo si protegge, allora esprimiamo molti figli, perché la nostra è una maternità spirituale e tutti sono nostri figli».
Alcune persone vi giudicano anacronistiche, se non addirittura represse. Cosa si sente di dire a questo riguardo?
«Dico che siamo come le sentinelle del profeta Isaia, quelle sentinelle che vegliano le città dalle mura e che vedono arrivare cose che chi è dentro le mura non riesce a vedere. Il monastero permette di guardare lontano, mentre oggi si tende a vedere solo vicino, questo però non garantisce un futuro. Represse? Credo che questo pensiero derivi dal timore del diverso, fa paura vedere che ci sono donne in grado di mollare tutto e richiudersi tutta la vita. Ecco, credo che questo interroghi fortemente sui veri valori della vita».
Come vede le donne di oggi e che messaggio si sente di dare per l’8 marzo?
«La donna può essere un grande abisso di amore per tutti e vorrei vedere tutte le donne nella loro identità, è quello il loro grande valore. La donna è in grado di essere madre, sorella, amica, figlia, bambina, adulta, possiede tutti quei talenti che la rendono capace di portare avanti una famiglia, un’azienda.
La donna è potenzialmente grande ma deve credere nel suo valore: non è meno e non è neanche più, è donna, punto. Allora alle donne voglio dire: siate quello che siete, vivete quello che siete, solo così è possibile vivere la vita in pienezza. La donna piace solo quando è se stessa e non quando scimmiotta altre. Ecco, bisogna ricominciare a credere in questi valori».