ANCONA – «Era ora, è una svolta che attendevamo da tempo». Rossella Marinucci, della segreteria regionale della Cgil Marche commenta così la sentenza della Corte Costituzionale che ha ritenuto «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre».
Nella nota stampa diramata dalla Corte Costituzionale si legge inoltre che «nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale. Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due».
In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, la Corte Costituzionale precisa che «resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico. La Corte ha dunque dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre, con riferimento ai figli nati nel matrimonio, fuori dal matrimonio e ai figli adottivi». Ora toccherà al legislatore regolare gli aspetti connessi alla decisione.
«L’automatismo dell’attribuzione del cognome paterno – osserva Marinucci – è un retaggio che deriva da una concezione patriarcale, per cui il ruolo pubblico era quello degli uomini, capofamiglia, mentre le donne passavano dalla tutela del padre a quella del marito, del quale assumevano anche il cognome, e così via anche per i figli».
Una “regola” che secondo Marinucci riflette di fatto «una forma di invisibilità del ruolo materno e della figura materna nella vita dei figli». Per la sindacalista «non è solo una questione tecnica, dietro c’è una questione di potere, di visibilità sociale e di autorevolezza finora negata alle donne e anche spesso sottovalutata dalle donne stesse».
Un percorso durato qualche decennio, quello che si è chiuso con la sentenza della Corte Costituzionale e che vede l’Italia indietro rispetto ad altri Paesi europei sotto questo fronte. Marinucci osserva che la sentenza aggiorna la normativa italiana «non solo per l’uguaglianza fra uomini e donne, ma anche per stabilire un principio di diritto del figlio o della figlia che di genitori ne ha due». Un principio da garantire sia che i figli siano nati nel matrimonio, sia che siano adottivi.
La prima proposta di legge per cercare di “riscrivere” le regole della carta di identità, venne presentata nel 1979, da lì in avanti ne arrivarono numerose altre a tentare di modificare la situazione, ma senza successo fino al 2016 quando ci fu il primo passaggio davvero significativo. Quell’anno la Consulta, preso atto della condanna inflitta all’Italia nel 2014 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, aveva stabilito che due genitori, se concordi, avevano il diritto di dare al figlio il doppio cognome. Il tabù iniziava ad infrangersi. Nel 2019 il Tribunale di Bolzano ha riaperto la questione, rilevando la mancanza di una normativa. Oggi la decisione storica «che ha richiesto troppo tempo e tanti passaggi in Tribunale» conclude Marinucci.