ANCONA – Gli abissi marini sono ricchi di risorse. Presto il 50% del petrolio potrebbe essere estratto dagli ambienti profondi con i relativi rischi ambientali, basti pensare all’incidente della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel 2010 che ha portato ad uno sversamento massiccio di petrolio nelle acque del Golfo del Messico. Gli abissi marini sono ricchi anche di minerali, come ad esempio l’indio, prezioso per produrre il touch-screen di smartphone e tablet. L’esplorazione e lo sfruttamento industriale di questi ambienti stanno aumentando. Che cosa comporta tutto ciò? Quali effetti può avere sull’eco-sistema? Un gruppo internazionale di ricercatori (Stati Uniti, Canada, Italia, Germania, Inghilterra, Spagna) coordinati da Roberto Danovaro, Professore dell’Università Politecnica delle Marche, ha formulato una proposta di tutela degli abissi, pubblicata sulla rivista scientifica internazionale Science: per tutelare gli oceani serve un trattato.
Professor Danovaro per quale motivo è importante tutelare gli abissi? Che cosa sta succedendo?
«I territori marini privi di giurisdizione internazionale sono il nuovo far west in quanto ricchi di risorse. Il mare fornisce ossigeno, minerali e gas che non possono essere prodotti dall’uomo. La gran parte di questi elementi è fornita dagli oceani, soprattutto quelli profondi. Dunque, il problema delle materie prime limitate diventa sempre più consistente. Non essendoci una regolamentazione, se non si tutelano gli abissi marini, le decisioni sulla loro sorte saranno appannaggio di pochi, dei primi arrivati. Esiste una autorità internazionale per i fondali oceanici, l’International Sea-bed Authority (ISA), che attualmente ha il compito di fornire concessioni. Non può ad esempio sanzionare per comportamenti ambientali scorretti. Ciò che ancora manca è uno strumento di raccordo internazionale per la ricerca e la gestione di questi ambienti».
Negli abissi marini sono in azione i bulldozer?
«Sì, sono delle gigantesche macchine cingolate che vanno sul fondale degli oceani per raccogliere le materie di interesse».
Quindi che cosa fare per tutelare gli abissi marini? Qual è la proposta coordinata dall’Univpm?
«Sappiamo che attualmente ci sono degli osservatori abissali, uno di questi è italiano e si trova davanti a Catania, coordinato dall’INGV ma ne esistono altri in Europa, in Canada, negli USA e in Cina. Innanzitutto occorre creare delle basi sottomarine da cui far partire dei sistemi robotizzati di studio degli ambienti oceanici per una mappatura dei fondali. Ad oggi non sappiamo quasi nulla di questi ambienti, quante forme di vita li popolano, ci sono oltre un milione di specie ancora da scoprire. Lo scopo è capire come funzionano questi ambienti per non destabilizzarli una volta utilizzate le risorse presenti. Capire come rendere sostenibile qualunque attività.
In seguito è importante creare un’organizzazione internazionale per gli ambienti marini profondi, compresi tra i 200 metri e gli 11.000 metri, sotto il cappello delle Nazioni Unite per rendere questo ambiente di tutti. Il processo potrebbe essere simile a quello per l’Antartide per la condivisione della responsabilità e la gestione dell’ecosistema. Infine, occorre avere una piena conoscenza dei costi di recupero per pianificare la fase successiva all’utilizzo delle risorse. Gli oceani non hanno confini e richiedono cooperazione internazionale. Nessun paese può sostenere da solo i costi di monitoraggio. L’Univpm coordina un progetto all’interno di Horizon 2020 dal titolo “Merces” Marine Ecosystem Restoration in Changing European sul restauro degli ambienti marini, inclusi i mari profondi, e che ci permetterà di avere una idea precisa di come e quanto costa il restauro di questi ambienti».
Attualmente quindi che cosa viene monitorato negli abissi marini?
«Le tecnologie al momento, permettono solo di misurare le variabili fisiche – chimiche non viventi, come ad esempio la temperatura. Occorre, invece, misurare come, con lo sfruttamento delle risorse, la vitalità degli oceani viene colpita. In questo modo possiamo intervenire dove necessario per curare, restaurare i danni provocati dall’uomo agli ecosistemi».
Quali sono gli aspetti principali del lavoro elaborato con il suo team?
«L’aspetto diplomatico, l’innovazione tecnologica – nuovi strumenti per la rivoluzione biologica- e la rivoluzione culturale: come studiare i mari e la vita che contengono».
La proposta sarà discussa?
«La discussione sul tema è aperta. Alle Nazioni Unite, entro il 2017, si definirà la sostenibilità degli oceani. Inoltre, in occasione del G7, ad ottobre, l’Ocse organizza a Napoli un dibattito sull’innovazione degli oceani per presentare un’economia sostenibile».