Ancona-Osimo

Violenza contro i medici: due casi su tre interessano le donne

Nell’ultimo anno in Italia sono stati oltre 1200 i casi. «L’Ordine è in prima linea, le autorità ci aiutino a proteggere i colleghi più esposti». Il monito lanciato dal presidente dell’Omceo Ancona Fulvio Borromei

sanità, medicina, dottori

Sono più di tre al giorno gli episodi di violenza che si verificano in Italia contro i professionisti della salute. A dirlo i dati Inail, confermati dall’Osservatorio permanente per la garanzia della sicurezza e per la prevenzione degli episodi di violenza ai danni degli operatori sanitari, istituito lo scorso 13 marzo dal Ministero della Salute su proposta del presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, Filippo Aniello, per il monitoraggio nazionale delle violenze a danno di medici e infermieri.

Fulvio Borromei, presidente dell'Ordine dei Medici della Provincia di Ancona
Fulvio Borromei, presidente dell’Ordine dei Medici della Provincia di Ancona

«Due aggressioni su tre si verificano contro le donne», evidenzia Fulvio Borromei, presidente dell’Ordine dei Medici della Provincia di Ancona. In particolare «nell’ultimo anno si sono verificati circa 1200 casi, dei quali il 70% ha coinvolto professioniste donne, soprattutto nell’ambito dei servizi di Guardia Medica e di continuità assistenziale. Le donne che lavorano da sole sono le più esposte», precisa Borromei.

In questo senso è emblematico il caso di cronaca che ha visto protagonista una dottoressa di Catania, vittima di violenza mentre prestava servizio in una Guardia Medica. Un fenomeno che interessa in maniera trasversale tutta l’Italia, anche se tra le regioni più colpite da questi episodi aggressivi ci sarebbero in testa proprio quelle del sud Italia. «Le Marche non sono immuni – spiega Fulvio Borromei – e anche recentemente si sono verificati alcuni casi di aggressione a carico del personale sanitario».
Episodi che restano spesso nascosti per timore o pudore, ma anche perché c’è ancora poca sensibilità su questo tema.

I medici che operano nel pronto soccorso, nei servizi psichiatrici, nella Guardia Medica o di continuità assistenziale, specie negli orari notturni, sono i più esposti, e, vista l’occasionalità del contatto non sono nella possibilità di instaurare un rapporto di conoscenza e fiducia che li porrebbe in condizioni di sicurezza. Talvolta si ravvisano inadeguatezze strutturali e organizzative, che completano un quadro a dir poco preoccupante.

«I luoghi dove i medici lavorano dovrebbero essere più consoni a tutelare chi vi opera – precisa il presidente dei camici bianchi dorici – sia dal punto di vista strutturale che organizzativo. Non dovrebbero essere isolati, ma vicini ad altre strutture, e dovrebbero essere dotati di sistemi di allarme. Occorre uno sforzo per ridurre tensioni e situazioni che possono portare all’ira e alla violenza verbale, che 16 volte su 100 si trasforma in aggressione fisica. È un problema da affrontare con urgenza e sarebbe auspicabile che venisse inserito nell’ambito di un programma di miglioramento della comunità nel suo insieme. Fare comunità per non essere soli: un motto che solitamente riservo alle cure palliative, ma che mi sento di estendere a questo ambito. Perché se una comunità è attenta e solidale, contribuisce a ridurre l’impatto dei problemi».

A scatenare l’ira dei pazienti sarebbero più spesso l’assunzione di sostanze stupefacenti o di alcool da parte dell’aggressore, oppure una prescrizione negata da parte del medico, piuttosto che attese prolungate prima delle prestazioni sanitarie o situazioni di disservizio.

«Ci sentiamo di ribadire con forza che, come Ordine, siamo in prima linea al fianco di tutti i medici ed in particolare di quelli che sono più esposti sui luoghi di lavoro – sottolinea il presidente dei camici bianchi dorici –  e intendiamo difenderli con tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione. In particolare, cercheremo di sensibilizzare tutte le istituzioni interessate comprese le forze dell’Ordine. È il caso di pensare ad un modello di continuità dove non si lavora più in maniera isolata, ma affiancati da altri professionisti, dal mondo del volontariato o dell’assistenza». È questa la sfida lanciata da Borromei. «Chi è solo non deve più essere solo – conclude – occorre mettere in moto sistemi per ridurre le frustrazioni e far in modo che i servizi siano meglio compresi dai pazienti».