ANCONA – Formatasi in Spagna la sua missione è quella di portare lo yoga oncologico nelle strutture ospedaliere, come avviene da anni nel vicino Paese Iberico, perché per curare la malattia le terapie mediche sono fondamentali, ma cruciale è anche prendersi cura della mente e del corpo della persona malata.
Corridoi bianchi, sale d’attesa, macchinari, medicine, profonda incertezza e paura. Questo è parte della vita che vive una persona malata di cancro, una situazione sinonimo di dolore, fisico ed emotivo. Perché è successo a proprio a me? Creare un ambiente sicuro nel quale le persone malate di cancro possano ritrovarsi con se stesse, riconnettersi al proprio corpo e alle loro condizioni fisiche ed emotive, per lavorare con esse attraverso il movimento e la respirazione è la finalità dello yoga oncologico, pratica introdotta da anni in Spagna all’interno degli ospedali pubblici.
A raccontarlo è Francesca Scarlato, una delle due insegnanti presenti su tutto il territorio italiano ad essere abilitata dalla Rete Internazionale dello Yoga Oncologico. È originaria di Loreto ma vive a Porto Recanati e la sua missione è diffondere la pratica dello yoga oncologico nei principali nosocomi marchigiani. Dal 2004 la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto lo yoga come una valida terapia complementare per affrontare il cancro. Scarlato lo ha imparato sulla propria pelle quando all’età di 18 anni le è stato diagnosticato un tumore e poi nel 2012 si è ammalata sua madre che è venuta a mancare pochi anni dopo.
Da cosa nasce l’idea?
«L’idea dello yoga oncologico nasce negli Stati Uniti già decenni fa da un’insegnante di yoga che, trovatasi a dover affrontare la malattia continuando a praticare yoga, una volta guarita, decide di condividere quest’esperienza con altre persone malate. Così come è stato per la mia insegnante Adriana Jarrin, fondatrice della Rete internazionale di Yoga Oncologico, anche lei trovatasi ad affrontare la malattia anni fa e da questa esperienza spinta poi a sviluppare e diffondere la pratica affinché anche altre persone potessero beneficiarne, così come era stato per lei prima, durante e dopo il percorso terapeutico».
Come si struttura concretamente l’attività?
«L’attività, come ogni lezione di yoga “tradizionale”, ha varie fasi, esercizi di respirazione, riscaldamento e movimento delle articolazioni, una fase centrale con posizioni adattate e poi una fase di rilassamento finale. Nello yoga oncologico tutta la pratica è adattata alle esigenze specifiche del malato e quindi va incontro alla persona nelle “condizioni e nel luogo in cui si trova in quel momento”, è infatti una pratica che è possibile eseguire anche da seduti e da sdraiati e che, anche per questo, è particolarmente adatta allo svolgimento anche in ambiente ospedaliero senza l’ausilio di attrezzature o la necessità di spazi particolari».
Quanto ha influito la sua esperienza?
«La mia esperienza sia personale che familiare con la malattia ha influito in maniera determinante. Fin da quando mi sono formata come insegnante di yoga tradizionale, più di 7 anni fa, ho avuto il desiderio di poter proporre questa pratica in ambito oncologico, perché so cosa significa e come ci si sente a ritrovarsi malati di cancro per averlo sperimentato quando ero ancora giovane e per essermi occupata di mia madre durante la sua malattia, oltre ad aver potuto vedere i benefici che la pratica ha avuto su mia madre durante tutte le fasi della malattia e dei trattamenti. E quando scopri qualcosa di così utile e di così grande beneficio hai solo un desiderio: quello di condividerlo».
Quali sono i benefici riscontrati dalla pratica?
«Gli effetti positivi dello yoga oncologico sono indiscutibili: a livello fisico, riabilitazione e flessibilità della muscolatura interessata dagli interventi chirurgici, mobilità articolare, regolazione del transito intestinale, attivazione del sistema immunitario, aumento della capacità respiratoria e miglioramento della qualità del sonno. A livello psicologico ed emotivo permette il rilassamento del sistema nervoso e contribuisce alla gestione delle emozioni, fortifica l’autostima, migliora la concentrazione e potrebbe ridurre il consumo di antidolorifici».
Cosa spera per il futuro?
«Spero con tutto il mio cuore che questa pratica si diffonda e possa aiutare e raggiungere quante più persone possibili soprattutto nelle strutture pubbliche, dalle sale d’aspetto alle sale per la chemioterapia, fino all’hospice, perché è una pratica i cui benefici sono straordinari e la messa in atto nelle strutture incredibilmente fattibile. E in futuro anche di formare più insegnanti qui in Italia affinché si possa diffondere su tutto il territorio».