Attualità

Amicucci: «Cambiamo gli occhiali con cui vediamo il mondo»

L'amministratore delegato della Amicucci Formazione, “Ceo dell'anno” per Le Fonti Awards, suggerisce di guardare alla crisi come una opportunità di cambiamento. E disegna gli scenari del futuro

Franco Amicucci, AD di Amicucci Formazione

CIVITANOVA MARCHE – «Creare lavoro, rispondere ai bisogni di prodotti e servizi della società, vedere realizzati sogni e passioni». Sono gli elementi imprescindibili per diventare imprenditori e «spostare in secondo piano le tante difficoltà di questo Paese». Ne è convinto Franco Amicucci, amministratore delegato di Amicucci Formazione nonché “Ceo dell’anno” nel campo della formazione secondo Le Fonti Awards®, uno dei massimi premi nazionali per l’innovazione e l’eccellenza dell’impresa.  «Ogni imprenditore interpreta questo ruolo in modo diverso, perché diverse sono le motivazioni e gli scopi perseguiti da ciascuno – osserva Amicucci -. Ma in comune credo ci sia una forte motivazione autorealizzativa, creativa e in molti casi sociale».

Fondata nel 2001 a Civitanova Marche, Amicucci Formazione è una società specializzata in formazione e-learning e realtà virtuale. Trenta dipendenti all’attivo e sedi a Milano e Roma, l’azienda è riconosciuta come leader del “multimedia learning” con il brand Skilla, ed ha all’attivo circa oltre 250 clienti, tra aziende nazionali e multinazionali.

Amicucci, come sta l’Italia, oggi?
«Siamo tra i dieci Paesi più ricchi del mondo e lo saremo ancora per molti anni. Lo sport nazionale, dopo il calcio, è quello di parlare male di noi stessi, ma è uno sport negativo e diseducativo. Abbiamo tutti i problemi tipici dei Paesi ricchi, con al primo posto la denatalità e l’invecchiamento. Quando la media di figli per coppia si avvicina ormai a quota 1, si va  verso il dimezzamento della popolazione in tre o quattro generazioni. Al tempo stesso la vita media, nell’ultimo secolo, è raddoppiata. Un fenomeno tipico dei Paesi più ricchi. Al contrario, la maggiore natalità la vediamo nelle nazioni più povere, dove la media di figli arriva, in alcuni luoghi, anche a 5. La conseguenza di un paese ricco che invecchia è quello di chiudersi in se stesso, di non essere pronto alle innovazioni e di resistere a qualsiasi riforma seria. Abbiamo tuttavia eccellenze straordinarie, un tessuto imprenditoriale di piccole e medie imprese che cerca di aprirsi ai mercati internazionali, oltre a risorse culturali ed artistiche uniche».

Come sconfiggere questa mentalità, secondo lei?
«Non ho formule magiche e mi sembra che al momento non le abbia nessuno. Ma c’è un punto fermo per vivere positivamente il futuro: non aver paura dei cambiamenti epocali che stanno avvenendo nel mondo. La rivoluzione tecnologica può distruggere posti di lavoro se rimaniamo immobili ad osservare paurosi, ma può essere una occasione straordinaria per crearne di nuovi, anche se in settori diversi dagli attuali. Il tema di fondo è liberare risorse per investire sui settori del domani, non difendendo segmenti ormai decotti. Siamo alla vigilia di cambiamenti epocali, molto più forti di quelli finora vissuti,  occorre un cambio prima di tutto culturale per vivere da protagonisti ciò che sarà. Potrei sintetizzare che occorre cambiare gli occhiali con cui vediamo questa fase del nostro Paese, così da percepirla non come un momento di crisi. Con gli occhiali giusti vedremo che l’umanità nel suo complesso sta vivendo la fase più ricca della sua storia: quattro miliardi di persone sono connesse ad internet, Paesi una volta chiamati del terzo mondo si presentano ormai come protagonisti nella scena mondiale e rappresentano immense opportunità per le nostre imprese in grado di innovarsi e collocarsi nei mercati internazionali».

Veniamo al suo settore, come è cambiata la formazione negli anni?
«Purtroppo i processi educativi della scuola italiana non si sono adeguati per rispondere alla nuove competenze richieste. Esistono isole di innovazione, ma scuole ed università non stanno tenendo il ritmo. Assistiamo da una parte al permanere di modelli didattici tipici dell’epoca industriale del secolo passato, dall’altra vediamo le nuove generazioni continuamente connesse in rete, fuori dalla scuola, per socializzare, informarsi, passare il tempo. Questa separazione è negativa, perché la scuola deve aprirsi alle nuove tecnologie applicate all’insegnamento e, al tempo stesso, deve preparare i giovani ad un uso consapevole della rete. Anche la formazione aziendale è prevalentemente legata a vecchi modelli del docente e dell’allievo. Solo aziende innovative riescono ad introdurre nuovi metodi che rompono il classico schema docente-allievo per sperimentare quella che sarà la prevalente modalità di formazione degli adulti nei prossimi anni, che si baserà sull’apprendimento continuo, fatto in diverse modalità che comprendono e-learning, gruppi di apprendimento cooperativo, community professionali che si scambiamo informazioni ed istruzioni, coaching, aule brevi ma coinvolgenti, fino a sperimentare  simulatori di esperienze lavorative in realtà virtuale. L’alternanza scuola-lavoro sarà fondamentale, ma per tutto l’arco della vita».

La preparazione dei giovani è rimasta tale e quale al passato?
Ogni generazione ha naturalmente la sua specificità. Questa è la generazione dei nativi digitali, che entra nel mercato del lavoro con competenze  importanti, che i più anziani non hanno. Assistiamo al paradosso che chi ha potere, in azienda e nella società, non ha la competenza centrale per il futuro, quella digitale, appunto, mentre il giovane che entra nel lavoro ha la competenza digitale, ma non sa come usarla. Ma la prima competenza che scuola ed imprese dovrebbero trasmettere è quella dell’ ”apprendere ad apprendere continuamente”, perché il mondo cambierà  sempre più velocemente ed intensamente. Flessibilità cognitiva, adattamento al cambiamento, proattività saranno sempre più importanti per  i giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro».

Con la crisi, purtroppo, in tanti hanno perso l’occupazione, sia giovani che non. Cosa suggerisce?
«La perdita del lavoro è sempre un trauma nella nostra cultura alimentata dal mito del posto fisso a vita. Per alcuni la perdita del lavoro dipendente è stata l’occasione per scoprire risorse ed abilità mai utilizzate. Molti imprenditori, del resto, sono ex dipendenti che avevano perso il lavoro. È importante non chiudersi, utilizzare il tempo per attivare tutta la rete di relazioni personali, per aggiornarsi su alcune competenze come l’uso del computer e di una lingua straniera. Oltre a questi aspetti, in attesa di nuove opportunità lavorative, è utile impegnarsi socialmente, dal volontariato alla vita associativa del territorio, perché mantenersi attivi e motivati è fondamentale».