ANCONA – «Il mare può aiutare a risolvere il cambiamento climatico, ma va gestito e protetto, come ogni altra risorsa naturale». L’appello arriva dal professor Roberto Danovaro, docente dell’Università Politecnica delle Marche e e membro del Centro Nazionale Biodiversità, che fa parte della squadra di esperti di fama internazionale che ha condotto uno studio pubblicato sulla rivista Science e guidato dall’Università della California a San Diego, per valutare gli effetti delle tecnologie, usate per mitigare il riscaldamento e rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera, sugli ecosistemi marini.
La premessa da cui parte Danovaro è che «il 65% degli ambienti non costieri del Pianeta si trova a profondità marine molto elevate, dove sono presenti ecosistemi molto vulnerabili e specie rare, che vivono in ambienti dalle caratteristiche molto costanti». Ecosistemi estremamente importanti per l’equilibrio e la sopravvivenza del Pianeta, ricchissimi di biodiversità, presenti per lo più a profondità abissali.
«Negli oceani c’è una disponibilità di acque pari a 1 miliardo e 300 milioni di chilometri cubi – spiega -; il 95% delle acque si trova nelle profondità, dove non arriva luce e dove ci sono basse temperature, un serbatoio gigantesco che regola i cicli biogeochimici globali, la produttività dal punto di vista della pesca, rifornendo di’ fertilizzante’ l’ambiente costiero».
Un luogo dove si è originata la vita e «una risorsa straordinaria di minerali e fossili». Da qui è partita la riflessione degli scienziati con l’obiettivo di trovare soluzioni al cambiamento climatico. Molti si sono industriati per arrivare a delle soluzioni che si possono racchiudere sotto ‘il cappello’ di ‘interventi climatici oceanici o basati sugli oceani’. Tra queste soluzioni trovate da ingegneri ed esperti in tecnologie, spiega il professor Danovaro, figurano misure come quelle di «cospargere gli ambienti marini con grandi quantità di carbonato di calcio per aumentare il pH delle acque e contrastare l’acidificazione degli oceani che ci stanno già dando una mano assorbendo la metà dell’anidride carbonica che produciamo, una soluzione ma non è chiaro che impatto potrà avere sugli organismi»..
Altre soluzioni avanzate propongono di «fertilizzare gli oceani al largo per far crescere più alghe, altre di fare crescere micro alghe o coltivare grandi alghe, mentre altre soluzioni ancora si propongono di agire sul piano elettrochimico creando una sorta di scogliere di carbonato di calcio deposto sopra strutture metalliche». Tra le possibili misure avanzate quella di «pompare anidride dall’atmosfera e di immetterla nelle profondità oceaniche, altre, ancora più rischiose, propongono di raffreddare il Pianeta ricorrendo alle acque delle profondità, come se gli oceani fossero dei grandi condizionatori».
Il gruppo di lavoro internazionale chiede di valutare le conseguenze delle misure proposte prima di adottarle per evitare che «si rischi un impatto superiore ai benefici». Secondo gli scienziati occorre rispettare «il trattato delle Nazioni Unite sull’Alto Mare, approvato pochissimi giorni fa: quando si lavora in mare aperto o anche in acque, ogni Paese dovrebbe valutare attentamente l’impatto ecologico e sulla biodiversità marina, altrimenti le soluzioni rischiano di divenire più rischiose che vantaggiose».
Obiettivo del trattato è la protezione dell’Alto Mare, finora ‘terra di nessuno’, ma che ora con il “High Seas Treat” dell’ONU (il trattato) vedrà regolamentate le azioni umane nelle acque internazionali, che cominciano a 370 chilometri dalle coste e corrispondono a due terzi degli oceani, la metà della superficie del Pianeta: il trattato prevede che entro il 2030 il 30% degli oceani sia considerato ‘area protetta’.
«Dobbiamo capire che il Pianeta è come un paziente in emergenza che si trova in ambulanza, è necessario valutare bene i percorsi da fare e le possibilità. Invece di compensare in modo artificioso e rischioso le emissioni è forse più utile di evitare di produrne altre, e anche in questo caso gli oceani ci vengono in aiuto». La strada tracciata da Danovaro per uscire dall’emergenza clima, passa attraverso i sistemi di produzione di energia elettrica basati sulla conversione dal mare e sullo sviluppo di impianti eolici del largo, i cosiddetti offshore, che «producono il triplo dell’energia di quelli a terra, perché al largo i venti sono più forti e costanti». «Non un segnale di allarme – spiega – ma un segnale di attenzione e di speranza per il futuro».