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Istat, nel 2023 Pil Marche 33,2mila euro annui pro-capite. Orazi dell’Univpm: «Deindustrializzazione in atto»

Nell'ultimo report sui Conti economici territoriali - Anni 2021-2023, emerge che il Pil delle Marche è cresciuto dal 2021, ma leggermente meno della media nazionale

ANCONA – Nel 2023 il Pil (Prodotto interno lordo) pro-capite nelle Marche ha registrato un valore in termini nominali di 33,2mila euro annui, in crescita rispetto al 2021 quando era pari a 29,0mila euro annui. Il dato risulta leggermente inferiore alla media nazionale pari a 36,1mila euro annui. Emerge dalla fotografia scattata dall’Istat nell’ultimo report sui Conti economici territoriali – Anni 2021-2023. Pil e occupazione crescono di più nel Mezzogiorno, i consumi nel Nord-est e nel Centro, mentre nel Mezzogiorno il livello risulta leggermente inferiore a 24mila euro annui.

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Incrementi del Pil inferiori alla media nazionale si rilevano anche in Lazio (+0,5%), Basilicata (+0,4%) e Piemonte (+0,3%), oltre che nelle Marche (+0,3%). Sul fronte della spesa per i consumi finali delle famiglie, gli incrementi in volume più significativi sono stati stimati nella Provincia autonoma di Trento (+2,1%), in Valle d’Aosta e nella Provincia Autonoma di Bolzano/Bozen (+1,9%, in entrambe), in Toscana (+1,6%) e in Sicilia (+1,5%), in Molise (+1,3%), nelle Marche (+1,2%), in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Abbruzzo (+1,1%).

Il Lazio si conferma la prima regione del Centro, con un Pil per abitante pari a 41,8mila euro, seguita dalla Toscana (37,7mila) e, a una certa distanza, da Marche e Umbria (rispettivamente 33,2mila e 30,5mila euro). In tutte le regioni del Centro, il reddito disponibile è aumentato a ritmi inferiori alla media nazionale. Più sostenuto è stato l’incremento registrato nelle Marche (+4,8%) e in Umbria (+4,6%), mentre la dinamica delle regioni più grandi, Lazio (+3,9%) e Toscana (+3,6%), ha contribuito a rallentare l’andamento nella ripartizione, portando alla crescita del reddito disponibile più contenuta del 2023. Approfondiamo il tema con il professor Francesco Orazi, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università Politecnica delle Marche.

Quali sono i settori dell’economia regionale che soffrono di più e perché? «Le Marche stanno conoscendo un processo di deindustrializzazione molto importante, una dinamica che va avanti da circa un quindicennio. Il manifatturiero, che pure è il settore caratterizzante la struttura economica della regione, è anche quello che conosce purtroppo le maggiori dinamiche negative. Lo si vede anche con i tanti tavoli di trattativa aperti, che rimangono ancora lì come un grande dubbio. Il settore conosce un arretramento molto rilevante che viene solo in parte compensato dagli altri settori. Leggendo i dati dell’Istat si nota come il Pil del Paese è stato in gran parte sostenuto dalle costruzioni, un dato gonfiato dal PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr), dal Superbonus al 110% e da tutte le manovre di incentivazione prodotte per il settore».

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Le costruzioni, spiega, «rappresentano una lunghissima filiera e quindi impattano in maniera molto importante, ma non è da questo settore che si può pensare di ripartire» perché «non in grado di risolvere i problemi strutturali di una regione come le Marche che sta conoscendo un forte processo di deindustrializzazione e non ha una economia dei servizi avanzata adeguata a tamponare la perdita di produttività del sistema».

Le famiglie marchigiane, quindi, spendono di più per i consumi finali? «Questa spesa non è così rilevante, specie se teniamo conto che i consumi finali nel loro complesso sono di fatto una delle grandi partite macroeconomiche più deboli del nostro Paese, ci accorgiamo che questo discorso dal punto di vista quantitativo ha una relativa incidenza. Tra l’altro quel che va considerato è che questi dati non sono presentati al netto dell’inflazione, per cui se andiamo a verificare quanto in realtà l’inflazione ha eroso, potremmo accorgerci che possa erodere una parte molto consistente di questi aumenti nei consumi. È talmente relativo l’aumento e talmente condizionato dalla dinamica inflattiva, che forse non ci dice molto sulla salute o sulla crisi dell’economia regionale».

Quanto incide in questa congiuntura la crisi di Germania e Francia, con gli Usa tra i principali mercati di sbocco? «Se la Germania continuasse a conoscere una condizione di crisi economica, oltre che soprattutto di crisi politica, per l’Italia sono guai, perché il nostro sistema non solo ha nella Germania, nella Francia e negli altri Paesi europei un mercato di sbocco per le proprie produzioni, ma anche il legame con l’economia tedesca è fortissimo soprattutto nei termini della subfornitura. L’Italia, infatti, è uno dei primi subfornitori delle filiere produttive tedesche e la nostra capacità incide direttamente sulle filiere della Germania. Lo si è visto con il Covid quando l’Italia ha riaperto più tardi e le grandi imprese tedesche come Volkswagen e Mercedes, non hanno potuto riprendere la produzione perché l’Italia era ferma, questo significa che pezzi importanti di una subfornitura di livello molto elevato partono dall’Italia. Germania e Francia per noi sono mercati di sbocco e partner produttivi di estrema rilevanza e la loro crisi si riverbera in maniera diretta su di noi. Gli Stati Uniti sono un mercato di sbocco inferiore rispetto all’Europa».

Cosa succederà con i dazi annunciai da Trump? «I dazi possono essere molto pericolosi, anche se alla lunga potrebbero diventare rischiosi per gli stessi Stati Uniti che non avrebbero convenienza né a rattrappire i mercati europei, di cui sono importantissimi partner, ma soprattutto alla lunga saranno gli stessi americani a non avere grandi vantaggi dal protezionismo, perché tutto quello che viene aumentato in termini di dazi si riverbera sui prezzi finali dei beni che finiscono in mano ai produttori. In pratica l’aumento della tassazione legato ai dazi verrà inevitabilmente scaricato sul consumatore finale e finirà per sfavorire ulteriormente i redditi meno alti».

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