ANCONA – «Non ci sono parole né doni che possano bastare per esprimere il nostro ringraziamento. La vostra dedizione soprattutto in momenti duri come questi che stiamo vivendo non può essere data per scontata». Recita così una delle tante lettere di ringraziamento, scritta da un ex paziente dell’area covid della terapia intensiva di Torrette che è riuscito a vincere la sua battaglia contro il virus.
Nascosti, quasi irriconoscibili, dietro le tute di contenimento, con il volto celato dalle mascherine e dalle visiere, dopo più di un anno trascorso in “trincea” a lavorare senza sosta per salvare vite, per i sanitari italiani è arrivata la candidatura al Premio Nobel per la Pace 2021.
Il Comitato norvegese l’ha accolta, perché i medici e gli infermieri italiani sono stati i primi nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria. È la prima volta nella storia che tutti i sanitari di una Nazione sono candidati al Premio Nobel per la Pace. Un impegno, quello nella lotta alla pandemia di coronavirus, che ha visto tanti perdere la propria vita per salvare quella dei loro pazienti. Ad essere deceduti per covid fino ad oggi in Italia sono stati 420 operatori, di cui 340 medici e 80 infermieri.
Medici e infermieri come in trincea, hanno lavorato senza tregua per fronteggiare un virus che appena poco più di un anno fa era sconosciuto. Eppure rifiutano l’appellativo di eroi, come ci spiega Vanessa Savelli, infermiera in Clinica di Anestesia e Rianimazione di Torrette, dove ad oggi dall’inizio della pandemia sono state ricoverate quasi 250 persone.
«È il nostro lavoro, lo facciamo con tutto l’amore e la devozione che ognuno di noi ha, ma eroe è un aggettivo sopravvalutato» afferma l’infermiera. «Stanchezza, dolore, morte» è soprattutto questo che resterà nel cuore dei sanitari che stanno gestendo l’emergenza. Un’emergenza che ancora va avanti e che richiede la massima attenzione. Vanessa Savelli rivolge un accorato appello alla popolazione: «Non è ancora finita e bisogna esserne consapevoli: è necessario adottare tutte le misure anti contagio».
L’infermiera racconta che rispetto alla prima fase emergenziale «l’attuale è quella che ci ha provato di più: la prima ondata è stata più adrenalinica ed eravamo più incoraggiati dalla popolazione, adesso invece l’atteggiamento è cambiato, non siamo più eroi, anche se questa parola non mi piace. Forse ci vedono come lavoratori statali, nulla togliendo a chi ha perso l’occupazione, ma tra la stanchezza e tutta l’atmosfera che ci circonda, anche questo ha il suo peso».
A proporre la candidatura al Premio Nobel per la Pace 2021 per i sanitari italiani è stata la Fondazione Gorbachev di Piacenza, una candidatura sottoscritta anche dalla 71enne statunitense Lisa Clark, Premio Nobel per la Pace che da anni vive in Toscana e che durante la pandemia si è messa al volante delle ambulanze della Croce Rossa di Bagno a Ripoli, come volontaria.
«Con la terza ondata abbiamo dovuto iniziare a sacrificare e tagliare l’attività del blocco per aprire altri 20 posti letto ed arrivare a 38» dichiara il professor Abele Donati, direttore della Clinica di Anestesia e Rianimazione degli Ospedali Riuniti di Ancona.
«Medici e infermieri hanno affrontato con grande coraggio l’emergenza, mettendo in atto tutto quello che potevamo per la terapia di questi pazienti» spiega il primario, ricordando che 36 pazienti sono stati posti in circolazione extra corporea. Operatori che «si sono sacrificati per cercare di salvare vite umane». Come spiega il primario la candidatura al Nobel «è un riconoscimento a quello che è stato fatto, una soddisfazione, perché l’impegno di tutti quanti è stato veramente al massimo».
Tante le storie che resteranno impresse nelle menti dei sanitari. «Ricordo in particolare un ragazzo down che ad un certo punto sembrava perso – racconta il professor Donati – , poi abbiamo messo in pratica una pronazione prolungata per più delle 16 ore canoniche: tenuto pronato per 36 ore è migliorato e alla fine si è salvato». Il paziente venne ricoverato nel mese di febbraio dell’anno scorso insieme al padre che però non riuscì a sopravvivere. Un caso che sembrava disperato, quello del ragazzo poco meno che trentenne, che grazie alla tenacia di medici ed infermieri ha vinto la sua battaglia contro il virus.
Un altro caso che ricorda il primario, è quello di un 50enne fermano che si era ammalato in Albania, dove era per lavoro, e che è arrivato Torrette «in condizioni disperate»: qui sottoposto all’ossigenazione extra corporea è riuscito a sopravvivere.
Dall’inizio della pandemia l’approccio terapeutico alla malattia è cambiato, affinandosi, come spiega il direttore della Clinica di Malattie Infettive, Andrea Giacometti. «L’avanzare della ricerca ha portato all’esclusione di diversi trattamenti che hanno dimostrato che non erano efficaci: ora quelli utili non sono molti, ma credo che per fine anno potremo avere dei farmaci più efficaci».
Nel reparto ad oggi sono 400 le persone che sono state ricoverate, 200 delle quali nella prima ondata, «adesso abbiamo superato i 400 ricoveri covid complessivi. Non riusciamo a distinguere bene fra seconda e terza ondata – afferma Giacometti – perché non c’è stato un avvallamento netto, è stato quasi un proseguire della seconda ondata con un incremento nella terza. In questo anno abbiamo quasi raddoppiato il nostro consueto numero di ricoveri, in parte anche perché la nostra clinica era composta da 15 posti letto e ora siamo arrivati a 25, tutti covid. La direzione sanitaria ha predisposto un turnover per cui non teniamo il paziente fino alla dimissione: quando sta meglio questo viene spostato in area Cov4, un reparto pre-dimissioni».