ANCONA – Ucciso con un colpo di fiocina per motivi di viabilità. Secondo quanto emerso sarebbero queste le ragioni alla base dell’omicidio avvenuto domenica pomeriggio – 27 agosto – a Sirolo, dove un operaio albanese di 23 anni ha perso la vita per difendere un amico che sarebbe stato aggredito da un 27enne algerino, il presunto assassino, fermato alcune ore dopo dai Carabinieri a Falconara Marittima, con il fucile da pesca ancora con sé.
Gli investigatori sono tutt’ora al lavoro per ricostruire l’accaduto, ma intanto l’omicidio ha suscitato scalpore per la dinamica con cui sarebbe avvenuto e qualcuno ha deposto dei fiori vicino al luogo dove è morto il giovane operaio: adagiato vicino un cartello con scritto: ‘Non si può morire così’. Abbiamo sentito la criminologa Margherita Carlini.
La rabbia: Covid, caldo, povertà quali i fattori che stanno facendo crescere questo sentimento? «Sono tutti fattori che incrementano il rischio di agiti violenti e aggressivi, concorrendo tra loro nella genesi della violenza: C’è una correlazione tra caldo e aumento dell’aggressività, tra situazione economica – precarietà e aggressività, tra Covid e aggressività, come psicoterapeuta rilevo ogni giorno gli effetti negativi generati dalla pandemia, con criticità economiche e relazionali, ma ognuno di questi fattori, da solo, non è determinante a scatenare quanto accaduto».
Secondo l’esperta, sarebbe «importante comprendere la storia personale del presunto omicida, per capire cosa ha scatenato la reazione. Sarebbe importante sapere se ci sono turbe psichiche o psichiatriche alla base del suo comportamento, e conoscere il suo funzionamento sociale e relazionale, elementi importanti per avere un quadro completo della situazione, perché non capita tutti i giorni che si uccida una persona per questioni di viabilità».
Sembrerebbe che l’accusato, una volta bloccato dai carabinieri, abbia negato di aver ucciso il giovane: l’uomo si sarebbe disperato e rivolto alla fidanzata chiamandola amore. Secondo lei si può pensare ad una strategia difensiva? «Credo che la strategia difensiva possa essere il pensiero più ragionevole, a meno che ulteriori informazioni non ci portino a pensare a turbe psichiche o psichiatriche importanti. Emergono elementi di lucidità e freddezza nel comportamento dell’accusato che aveva ancora con sé la fiocina quando è stato fermato dai carabinieri. Di certo, se la sua è stata una strategia, è fallimentare e non costruttiva».
L’omicidio ci ha mostrato due tipologie di comportamento: da un lato quella dell’amico che va in aiuto, che difende, e dall’altro quella dei testimoni, fermi. Sono due facce della stessa medaglia? «La giovane vittima ha mostrato un senso di civiltà che dovrebbe appartenere a tutti e che dovrebbe essere più usuale rispetto al comportamento di chi assiste inerme o di chi addirittura video registra fatti gravi, come avvenuto l’anno scorso nell’aggressione mortale a Civitanova. Sono due facce della stessa medaglia, la società, ma purtroppo sembra più diffuso il comportamento di chi assiste inerme, sembra quasi che prevalga la necessità di documentare anziché di vivere quanto accade».
In questi casi pensa si possa parlare di prevenzione? «Se ne deve parlare e si deve fare qualcosa: questi atteggiamenti sono frutto del momento che stiamo vivendo, una fase storica in cui la violenza dilaga, veicolata dai social network, estremamente fruibili da tutti, e in un certo senso sdoganata proprio dai social, che rendono difficile comprendere cosa è consentito e cosa non lo è».
La criminologa rimarca che i contenuti violenti veicolati da video, da giochi utilizzati non solo dagli adolescenti, ma anche dai pre adolescenti, dalle challenge, tanto pericolose quanto in voga, generano una cultura della violenza, in cui il messaggio sotteso, spiega, è quello che il più forte vince, un messaggio interiorizzato dai ragazzi. «È importantissimo fermarci e interrogarci su cosa intendiamo per violenza: perché suonare il clacson se l’automobilista che ci precede non parte subito o invenire contro chi non conosce una strada? Bisogna proporre un modello di educazione fondato sulla non violenza, sulla non competitività, sul sostegno al prossimo».
In tal senso il 23enne albanese vittima «è un esempio dell’unico comportamento corretto, tra tanti altri, da adottare in questi casi». La scuola per la criminologa, che da oltre 15 anni tiene incontri negli istituti scolastici sulla violenza di genere, ha un ruolo fondamentale nell’educare al rispetto. «Purtroppo, è sempre molto difficile organizzare incontri nelle scuole su questi temi, perché spesso sono ostacolati dalle stesse famiglie, ma la scuola da sola non basta – osserva – la cultura del rispetto deve essere promossa dal governo centrale: abbiamo aderito a convenzioni che prevedono una formazione contro la violenza di genere e per l’educazione al rispetto, ma le leggi sono tutte a fondi zero. Contrastare la violenza di genere ha ripercussioni su tutte le forme di violenza, perché promuove il rispetto verso il prossimo».