ANCONA – Il 2,5% della popolazione italiana ha sviluppato gli anticorpi per il Sars-CoV-2, nelle Marche il 2,7%. È quanto emerge dai risultati provvisori (al 21 luglio) dell’indagine di sieroprevalenza avviata dal ministero della Salute e dall’Istat, in collaborazione con la Croce Rossa Italiana.
Dati che suggeriscono che gli italiani e i marchigiani sono venuti in contatto con il virus 6 volte di più rispetto ai casi intercettati dai laboratori regionali durante la pandemia. L’indagine mostra anche che nei livelli di infezione e di mortalità le differenze territoriali sono molto accentuate: la Lombardia raggiunge il massimo nella sieroprevalenza con il 7,5%, seguita dalla Valle d’Aosta, con il 4%, Piemonte, Trento, Bolzano, Liguria, Emilia-Romagna e Marche che si attestano intorno al 3%. Il Veneto è all’1,9% mentre otto del Mezzogiorno, mostrano un tasso di sieroprevalenza inferiore all’1%, con valori minimi in Sicilia e Sardegna (0,3%).
«C’era da aspettarsi un numero di contagiati ben superiore a quello dei “dati ufficiali” – commenta il primario della Clinica di Malattie Infettive degli Ospedali Riuniti di Ancona, Andrea Giacometti -. Del resto l’infezione è spesso asintomatica e quando non lo è viene spesso confusa con altre sindromi influenzali o da “raffreddamento”. Evidenzierei invece un dato molto positivo: finora in base ai dati ufficiali la mortalità da covid-19 in Italia risultava intorno al 14,5% (valore pressoché identico nelle Marche). Invece, se i contagiati reali salgono ad un milione e mezzo, allora facendo semplici calcoli matematici, i decessi in Italia sono poco più di 35.000, troviamo che la mortalità scende a circa il 2,5%. Quindi i dati globali, anche quelli dell’Oms (ndr Organizzazione Mondiale della Sanità) saranno tutti da rivalutare, poiché al momento la mortalità media a livello mondiale sarebbe di circa il 4%, addirittura superiore a quella italiana».
Statistiche, che come evidenzia il primario, «sono inficiate dalla quantità di dati che vengono tenuti nascosti dai governi di troppi Stati. In ogni caso penso che alla fine l’Italia non farà la figura della nazione con più alta mortalità come veniva ritenuta finora».
Genere ed età
Sul fronte del contagio l’indagine mostra che non ci sono differenze significative per quanto riguarda il genere: uomini e donne sono stati colpiti nella stessa misura dal covid-19, così come emerso anche in altri paesi. Sul fronte dell’età invece si registrano delle differenze: la sieroprevalenza è risultata essere più bassa nei bimbi da 0 a 5 anni (1,3%) e per gli ultra85enni (1,8%), due segmenti di popolazione che per età sono stati meno esposti durante la pandemia.
Lavoratori e inoccupati
I lavoratori sono risultati contagiati dal virus allo stesso modo degli inoccupati, mentre emergono delle differenze in base al settore di attività: in sanità si registra la sieroprevalenza più elevata con il 5,3% di casi, un dato che tocca punte del 9,8% nella zone a maggior contagio. «Nella sanità la prevalenza è maggiore perché ovviamente la possibilità statistica di contrarre l’infezione è maggiore – osserva il professor Giacometti -. Molti obietteranno che i sanitari usano i dispositivi di protezione individuale, i cosiddetti Dpi, e quindi sono certamente protetti, ma le cose non stanno proprio così. Dobbiamo tenere presente che qualsiasi dispositivo di protezione individuale riduce il rischio di infezione ma non lo annulla del tutto. Quando la Clinica di Malattie Infettive dove lavoro era stata dichiarata covid-hospital, tutti i pazienti lì ricoverati erano affetti da covid-19. Tutti i giorni venivano visitati nella loro stanza, ambiente contaminato dal virus, e a volte dovevamo trasportarli in altri locali per sottoporli ad esami strumentali non eseguibili nella stanza di degenza. Tutto questo per molte ore al giorno. Per quanto possano essere efficienti i dispositivi, il rischio c’era e c’è ancora con i nuovi ricoverati. Ad esempio, le famose mascherine Ffp2 riducono del 95% il rischio di inalare particelle nocive, non del 100%. Persino le più efficaci Ffp3 si fermano al 99%. Insomma, medici, infermieri ed operatori socio-sanitari sanno queste cose e cercano di tirare avanti applicando al meglio i protocolli di sicurezza».
Contatti con positivi e anticorpi
I risultati dell’indagine hanno confermato che le persone che hanno avuto contatti con i positivi hanno più probabilità di aver sviluppato anticorpi. I valori più alti corrispondono ai casi in cui i contatti hanno riguardato i familiari conviventi: il 41,7% delle persone hanno sviluppato anticorpi in questo caso, mentre se il familiare non è convivente la sieroprevalenza si abbassa al 15,9%. Incremento anche nei contatti lavorativi (11,6%). Da precisare che in più della metà dei casi anche in presenza di una stretta convivenza con persone affette da virus non si è generato il contagio.
«Difficile spiegare perché alcuni non abbiano sviluppato anticorpi pur essendo ripetutamente esposti – osserva il primario – . Forse non sono stati realmente contagiati per pura fortuna statistica, questo è sempre vero per ogni malattia infettiva dal raffreddore all’Aids. A volte anche dopo ripetuti rischi espositivi non ci si infetta. Oppure si sono infettati ma non hanno sviluppato anticorpi per cui appaiono sierologicamente “negativi”».
Secondo Giacometti anche la variabilità genetica può avere un ruolo, facendo sì che i recettori, molecole situate sulla superficie delle nostre cellule, utilizzati dal virus non siano sempre ottimali per il loro “aggancio”: «In pratica ci sono individui con recettori adatti al virus che contraggono facilmente l’infezione, altri che gli danno filo da torcere. Infine è importante anche la “carica infettante”, ossia la quantità di virus che incontriamo: se è troppo bassa è facile che l’attecchimento del virus non abbia luogo, anche questo concetto è valido per tutte le altre malattie infettive. Un solo virus o un solo batterio o protozoo o verme quasi mai riesce a stabilire una infezione, di regola ci vogliono simultaneamente centinaia-migliaia o anche milioni di patogeni».
Lo studio mostra che quasi il 30% delle persone con anticorpi è asintomatico, una percentuale ampia di popolazione in grado di contribuire alla diffusione del virus. Il 27,3% delle persone che ha sviluppato anticorpi non ha avuto alcun sintomo, un dato che non stupisce il primario: «Non è una novità – spiega -, gran parte delle infezioni virali sono asintomatiche. La comparsa di sintomatologia dipende dalla nostra risposta all’infezione, ossia dalla nostra produzione di pirogeni, sostanze che fanno salire la temperatura determinando febbre, e citochine infiammatorie. Questa produzione non dipende solo dal tipo di virus ma anche dalla nostra diversità genetica».
I sintomi
I 24,7% dei sintomatici hanno avuto uno o due sintomi (esclusa la perdita dell’olfatto e/o del gusto), mentre il 41,5% hanno avuto tre sintomi fra i quali anche la perdita di olfatto e/o di gusto. Tra i sintomi più diffusi ci sono la febbre (27,8%), la tosse (21,6%), il mal di testa (19,2%). I sintomi più diffusi dei soggetti con almento tre sintomi oppure perdita di gusto o di olfatto sono: febbre (68,3%), perdita di gusto (60,3%), sindrome influenzale (56,6%), perdita di olfatto (54,6%), stanchezza (54,6%), dolori muscolari (48,4%), tosse (48,1%), mal di testa (42,5%). Inoltre su 100 persone che hanno presentato il sintomo di perdita del gusto il 27,5% è risultato positivo, stesso discorso per la perdita dell’olfatto dove è risultato positivo il 25.4% delle persone.
Perché si perdono gusto e olfatto? «Il coronavirus è in grado di uccidere le cellule che infetta, per cui può danneggiare anche quelle della mucosa olfattiva nelle cavità nasali o quelle del gusto nel cavo orale. Tuttavia – prosegue – alcuni ricercatori ipotizzano una azione infettivo/infiammatoria anche nelle aree cerebrali che vengono raggiunge dalle fibre neuronali dell’olfatto e del gusto. In ogni caso, il danno è quasi sempre recuperabile nel giro di poche settimane».