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Antidoti al fondamentalismo

Riflessioni su religione, terrorismo, guerre e migrazioni con il vescovo di Jesi Gerardo Rocconi: «Il violento non ha nulla di religioso. La fede diventa un pretesto per avallare problemi personali»

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JESI – «Il violento o il terrorista di religioso non ha nulla. Ogni persona con un po’ di coscienza avverte che Dio non può essere violento e non può volere le atrocità». Gerardo Rocconi, vescovo della Diocesi di Jesi, ne è fermamente convinto. «In questi casi – sostiene il Pastore della chiesa jesina – la religione diventa un pretesto per avallare problemi personali, bisogno di affermazione, scompensi, odio, schiavitù subita, rabbia e in ultima analisi il bisogno di sentirsi vivi».

Vescovo Rocconi, perché secondo lei accade questo? Perché la religione viene strumentalizzata?
«Purtroppo una lettura fondamentalista del testo sacro è spesso causa di violenze e atrocità. Ogni religione, con i rispettivi libri sacri, luoghi per il culto e simboli ha il diritto al rispetto. Quando però la persona non è capace di comprendere l’autentica Parola di Dio, non riuscendo a distinguerla da quello che è il contesto storico e culturale in cui è stata scritta, può cadere preda del fondamentalismo. Poiché secondo la tradizione il Corano è una copia esatta della rivelazione data da Dio all’umanità, penso che questa operazione di interpretazione nel mondo islamico sia abbastanza difficile. Ritengo comunque che il discorso del fondamentalismo da solo non spieghi tutto. Sono convinto che spesso il motivo religioso non c’entri nulla e che, pertanto, il violento o il terrorista di religioso non abbia nulla».

Come fronteggiare questa deriva?
«Questo è un problema religioso interno. Nel campo cristiano, lo studio e la ricerca ci hanno fatto capire come leggere la Bibbia. Superare il fondamentalismo è un fatto della comunità credente in quanto tale. Certo, da parte di tutti è necessario un impegno culturale. Ma è indispensabile anche un impegno dell’intera società e, direi, dell’intera famiglia umana, per la pace e la non violenza. Dove c’è sofferenza a causa dell’ingiustizia altrui si rischia sempre una risposta violenta che poi viene mascherata con tanti pretesti. Per quanto riguarda un impegno culturale bisogna avere anche l’umiltà di dire che noi occidentali non siamo per niente una società perfetta. Mi faceva notare un musulmano: “È vero, noi le donne le copriamo completamente e non va bene, ma spogliarle completamente per fare la pubblicità a un prodotto pensi che sia meglio? Avete poco da insegnarci sui valori”. C’è da smettere di ritenere che dobbiamo esportare democrazia, cultura, valori. Ogni società ha la sua via».

In che modo influisce il luogo in cui si è nati nella lettura del significato della religione?
«Indubbiamente l’educazione influisce e mette in moto un processo. Poi sta alla libertà della persona e alla sua intelligenza accogliere in maniera critica quanto ha ricevuto. Questo vale ovunque: la famiglia, per esempio, trasmette la fede, trasmette dei valori, ma trasmette anche falsi valori. Poi è compito dell’individuo, nella sua crescita, rielaborare quanto ha ricevuto, cercare, approfondire e fare le sue scelte di vita».

Ritiene importante il dialogo fra religioni?
«Il dialogo interreligioso è importantissimo. La conoscenza porta a non aver paura degli altri e ad accorgersi che come me tanti altri vogliono il bene e la pace. Personalmente ho avuto modo di fare incontri pubblici con esponenti islamici. A Jesi ci sono stati incontri  e momenti conviviali sempre con la comunità islamica. A Natale il Comune stesso da due anni organizza in sala consiliare un incontro fra esponenti cristiani, islamici ed ebrei».

Guerre e migrazioni. Cosa sta facendo la Chiesa Cattolica, anche qui in Vallesina, per fornire un aiuto concreto a queste persone che fuggono da fame e miseria?
«Fra le varie componenti della Chiesa è soprattutto la Caritas (l’organismo pastorale della Chiesa cattolica costituito per promuovere la carità) che è impegnata su questo fronte. Da alcuni anni sta organizzando incontri di sensibilizzazione e di conoscenza rispetto alla realtà della migrazione. Negli ultimi mesi in particolare la Caritas sta portando una sensibilizzazione nelle parrocchie e nelle famiglie per l’accoglienza del progetto “Un rifugiato a casa mia”. Si tratta, cioè, di accogliere coloro che hanno ottenuto lo Status giuridico di Rifugiato. Queste persone, in realtà, pur avendo raggiunto lo scopo di avere asilo, si trovano nella situazione più difficile in quanto di fatto sono ormai lasciati a se stessi. Si tratta di aiutarli, almeno per alcuni mesi, per favorire l’integrazione. Nei primi tempi devono essere sostenuti in tutto e per tutto».

Come pensa sia cambiata la Chiesa da Papa Ratzinger a Papa Bergoglio?
«Mi sembra che Papa Bergoglio stia portando a conclusione, esplicitando, quanto Papa Ratzinger aveva seminato. Certo c’è un modo di porsi molto diverso fra i due Papi. Ma è altrettanto vero che i temi della pulizia, del rinnovamento, della carità, dell’accoglienza che oggi vediamo come cavalli di battaglia di Papa Francesco erano tutti temi che Benedetto aveva cominciato ad affrontare. Credo che le dimissioni di Benedetto trovino proprio qui il loro motivo più profondo. Papa Benedetto vedeva una necessità di rinnovamento, aveva messo alcuni presupposti, possiamo dire che aveva avviato un processo,  ma poi si sentiva debole di fronte a quanto lui stesso stava ipotizzando. Certo, a livello mediatico la Chiesa appare enormemente cambiata. Ma non credo che sia questa la cosa importante. In realtà io credo di vedere una continuità che spesso dai mezzi di comunicazione non emerge».