SASSOFERRATO – Nell’estate 295 a.C. – ovvero 2.312 anni fa – a Sentinum (presso l’odierna Sassoferrato) si svolse una battaglia epocale tra Romani e truppe confederate di Galli e Sanniti, uno scontro che risulterà chiave per le successive vicende e per l’espansione di Roma. Dagli storici è stata chiamata “La battaglia delle Nazioni”, e con questo nome la Pro Loco e il Comune di Sassoferrato hanno deciso di organizzare una rievocazione di quei giorni, ad ingresso libero, che comincia stasera (venerdì 28 luglio) alle ore 21 con il convegno presso il castello di Sassoferrato, in Piazza Matteotti, e proseguirà domani e dopodomani con un programma ricchissimo di eventi e rievocazioni storiche (che abbiamo dettagliatamente pubblicato nei giorni scorsi).
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Battaglia delle Nazioni, ecco il programma della rievocazione storica
Nel frattempo, per iniziare ad immergerci nell’atmosfera, vi proponiamo un resoconto di quella giornata del 295 a.C., scritto da Ferruccio Cocco “a mo’ di racconto”, avvalendosi della “consulenza” della dottoressa Ilaria Venanzoni, degli scritti del professor Federico Uncini (“Antiche civiltà tra Marche ed Umbria – La battaglia di Sentino”), oltre, ovviamente, a quanto lasciatoci dagli storici dell’antichità Polibio e Tito Livio.
Era un’estate bollente, un po’ come quella di quest’anno. La battaglia languiva da due giorni nella piana sentinate. C’era stata giusto qualche schermaglia tra i due enormi schieramenti avversari, ma niente di più. Da una parte stazionava l’esercito antiromano formato dalla coalizione di Sanniti e Galli Senoni (insieme a molte altre genti minori) guidata dal comandate sannita Gellio Egnazio, che era riuscito a mettere insieme più popoli in una “lega” nel disperato tentativo di bloccare l’inarrestabile ascesa di Roma: in totale, circa 60 mila uomini.
Sul fronte opposto c’erano quattro legioni dell’esercito romano: la V e la VI guidate dal console Publio Decio Mure, la I e la III dirette dal console Quinto Fabio Rulliano; insieme a loro, alcuni contingenti di alleati e mille cavalieri scelti provenienti dalla Campania, per un totale di circa 38 mila uomini. A buon diritto, vista la presenza di così tanti genti diverse, si sarebbe potuto parlare di “Battaglia delle Nazioni”. Etruschi ed Umbri, invece, erano stati costretti ad allontanarsi dal campo di battaglia di Sentino, perché richiamati nei loro territori dal simultaneo avanzamento degli eserciti di Fulvio e Postumio, che mettevano in pericolo le loro città: un utile stratagemma romano per smembrare le schiere avversarie impegnandole su due fronti.
La battaglia a Sentino, dicevamo, nel frattempo era in “stand-by” sotto il sole cocente di quell’estate 295 a.C. L’anziano console romano Quinto Fabio Rulliano, infatti, era convinto che l’attesa sarebbe stata l’arma migliore. Sapeva che i Galli e i Sanniti erano combattenti terribili ed impetuosi sulle prime, ma alla lunga la loro indole mal sopportava la fatica e il caldo. Inoltre, l’esperienza e l’età gli avevano insegnato a controllare quegli impulsi che, da giovane, gli avevano fatto rischiare la condanna a morte per aver disobbedito agli ordini del dittatore Lucio Papirio Cursore nella pur vittoriosa battaglia di Imbrinium, trent’anni prima.
Ora Quinto Fabio Rulliano aveva imparato ad aspettare (una dote che erediterà anche il nipote, che verrà chiamato appunto “Il Temporeggiatore” nelle futura Guerra Punica, ma questa è un’altra storia…). L’altro console romano Publio Decio Mure, invece, era assai più giovane. Lo animavano uno spirito irruento, pugnace e un desiderio incontrollato di veder trionfare la gloria di Roma. Quell’attesa sul campo di battaglia che durava da due giorni lo stava logorando. Un segno propizio ruppe i suoi indugi: la vista di un lupo, sacro a Marte, fondatore della stirpe romana. Publio Decio Mure, allora, manda avanti la fanteria. Poi incita all’attacco anche la cavalleria, ricordando ai soldati che doppia sarebbe stata la gloria se la vittoria fosse arrivata dalla loro ala.
All’assalto romano, i Galli accusano il colpo e sembrano ripiegare, ma all’improvviso dalle retrovie fanno comparire un’arma sconosciuta ai romani: i carri da guerra – a centinaia – lanciati alla carica. Il rumore, la polvere e – più che altro – il frastuono spaventano i cavalli romani che, nella fuga a ritroso, travolgono persino la propria fanteria. Il panico imperversa ora tra le legioni di Publio Decio Mure, che cerca in tutti i modi di far ritrovare coraggio ai suoi: grida loro di non fuggire, di serrare le fila, che la fuga non li avrebbe condotti da nessuna parte. Ma tutto sembra inutile nel caos generale. Di fronte alla scelta avventata dell’assalto che egli stesso aveva lanciato poco prima e all’impossibilità di convincere i suoi soldati, ora, a non indietreggiare, Decio capisce che per rimettere in sesto la situazione è necessario un suo gesto di coraggio: ricorrere alla “devotio”. Era, questo, un atto con cui il comandante si sacrificava, votando la propria vita alla Terra e agli dei Mani allo scopo di ottenere in cambio la distruzione dell’esercito nemico.
Già il padre era stato protagonista di un così eroico gesto in battaglia contro i Latini. «Cos’altro aspetto – grida Decio – ad andare incontro al fato della mia famiglia?». Detto questo, chiama a sé il pontefice Marco Valerio, gli fa recitare la formula e gli affida i littori (simbolo del comando) e, annodata alla vita la “toga praetexta”, coperto un lembo del capo con essa, si lancia con il cavallo dove più fitti sono i nemici, dai quali viene ripetutamente trafitto coi dardi. Il gesto del comandante, che i Romani consideravano rituale, ridona ai soldati una tale fiducia ed un tale vigore che essi interrompono la fuga e si gettano tutti insieme in battaglia per conquistare una vittoria che considerano ora certa, grazie al sacrificio di Decio, e per salvare la Repubblica.
Nel frattempo, sull’ala destra dell’esercito romano, anche Quinto Fabio Rulliano capisce che è il momento di attaccare con forza vedendo i sanniti sempre più stanchi per via della sete e del caldo: lancia all’assalto tutta la fanteria e le riserve, mentre invia i suoi 500 cavalieri campani a sostegno delle due legioni rimaste orfane di Publio Decio Mure per colpire alle spalle i Galli. Nel volgere di poco tempo, le sorti della lotta tornano dalla parte romana. Galli e Sanniti, inseguiti dalla cavalleria, scappano alla rinfusa verso l’accampamento dove cercano – invano – rifugio, ma trovano solo la morte: caddero in 25 mila, altri 8 mila furono fatti prigionieri.
Nei luoghi del massacro c’erano così tanti cadaveri che fu necessario innalzare delle pire per dargli fuoco: arsero per giorni e giorni e i cumuli di cenere (“busta gallorum”) erano talmente alti che rimasero visibili per anni e anni. Tra i romani, si contarono invece 8.700 morti. Il corpo straziato del valoroso Publio Decio Mure fu rinvenuto dopo due giorni di faticose ricerche sotto una pila di cadaveri stranieri e venne onorato dal suo esercito e dal collega Quinto Fabio Rulliano. Grande fu la fama di quella giornata in cui si combatté nel territorio di Sentino, tanto che alcuni scrittori dell’epoca, esagerando, dissero che l’esercito nemico era composto da seicentomila fanti, quarantaseimila cavalieri e mille carri!
Quinto Fabio Rulliano tornò a Roma con le sue legioni il 4 settembre ottenendo il trionfo e, primo della “gens” Fabia, ricevette il soprannome di “Massimo”. Ma nei canti dei soldati venne ricordato anche Publio Decio Mure. Dal bottino raccolto in guerra, ogni soldato ricevette 82 assi di rame, un mantello e una tunica. La battaglia di Sentino – combattuta in queste nostre terre – non pose fine alla Terza Guerra Sannitica (che si protrasse fino al 290 a.C.), ma fece capire a tutti i popoli la grande potenza di Roma, capace di sconfiggere una coalizione così ampia.
I Romani, già egemoni nell’Italia centro-meridionale, con la vittoria qui conquistata si aprivano anche una strada verso l’espansione a nord: nel giro di un decennio venne fondata Sena Gallica (Senigallia) e Ariminium (Rimini), costituendo così gli avamposti per la successiva conquista della Pianura Padana. Tutto questo fu possibile grazie anche al sacrificio di Publio Decio Mure. Diversamente, come sarebbe andata? Quali pieghe avrebbe preso la storia? Forse oggi noi parleremmo etrusco o, chissà, forse qualche idioma celtico…
Ferruccio Cocco
La formula della “devotio” recitata da Publio Decio Mure
“Oh Giano, Giove, Marte padre, Quirino, Bellona, Lari, Divi Novensili, Dèi Indigeti, Dèi che avete potestà su noi e i nemici, Dèi Mani, vi prego, vi supplico, vi chiedo e mi riprometto la grazia che voi accordiate propizi al popolo romano dei Quiriti potenza e vittoria, e rechiate terrore, spavento e morte ai nemici del popolo romano dei Quiriti. Così come ho espressamente dichiarato, io immolo insieme con me agli Dèi Mani e alla Terra, per la Repubblica del popolo romano dei Quiriti, per l’esercito, per le legioni, per le milizie ausiliarie del popolo romano dei Quiriti, le legioni e le milizie ausiliarie dei nemici”.