Attualità

Contro il terrorismo

A confronto con Wahbi Youssef, coordinatore della moschea jesina: «L'Islam non ha nulla a che fare con il fanatismo. La nostra è una religione di pace e misericordia»

Wahbi Youssef, presidente del Centro Culturale Islamico Al Huda

JESI – «L’Islam non ha nulla a che fare con il fanatismo. La nostra è una religione di pace e misericordia». Wahbi Youssef, presidente del Centro Culturale Islamico Al Huda di Jesi, ci tiene subito a precisarlo. Sa bene che la diffidenza verso il mondo musulmano è in costante aumento in occidente, a causa degli attentati rivendicati dall’Isis. Lo percepisce sul luogo di lavoro, per strada, sul web. «Chi commette atti ignobili e disumani, come il terrorismo, non è un credente, non è un mio fratello, ma solo un pazzo criminale – puntualizza il coordinatore della moschea di via Erbarella -. Nel Corano vengono condannati sia l’omicidio che il suicidio, considerati giustamente peccati gravi. E negli attentati, in Turchia e in Francia per esempio, sono morti tanti fratelli musulmani».

Perché, secondo lei, la religione viene utilizzata quale pretesto per la violenza e la distruzione?
«Forse perché fa comodo a qualcuno. La religione è semplice da praticare: basta credere e fare del bene, solo così ci si avvicina a Dio, o ad Allah nella traduzione in arabo. “Allah Akbar”, che tanto terrorizza e che ha acquisito quasi un’accezione bellica, significa semplicemente “Dio è grande” nella nostra lingua. Questi criminali del Daesh (o Isis) non so cosa vogliano dimostrare, se non il loro odio incondivisibile e ingiustificato. Provano a infettare il mondo offendendo i valori di fede, civiltà e umanità, ci stanno condannando e infangando. Ma noi esistiamo e resistiamo. Perché siamo altro. E continuiamo a combattere contro l’ignoranza, che è la causa primaria del terrorismo. Il nostro libro sacro, che evidentemente non hanno nemmeno sfogliato, o non contestualizzano (come viene fatto anche per la Bibbia ndr.), dice che chiunque uccida un uomo che non abbia ucciso a sua volta, o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera».

Come si può fare, dunque, per arginare il terrorismo di matrice religiosa?
«Con la conoscenza, il dialogo e la cultura. Il contesto in cui nascono questi terroristi, acerrimi nemici dell’Islam, è spesso determinante. In molti casi sono giovanissimi che entrano ed escono di prigione, o hanno a che fare con sostanze stupefacenti. Sono facilmente manovrabili, purtroppo, da chi ha interesse a far loro il lavaggio del cervello. Il paradiso, dice il Corano, si ottiene con le buone azioni, giorno dopo giorno. Non certo facendo i martiri. Ci fosse una volta, poi, che si immolano coloro che si definiscono guide spirituali: mandano sempre avanti gli altri».

A Jesi come si trova?
«Ho assunto la presidenza del Centro Culturale Al Huda nel periodo degli attentati in Francia e devo dire che avevo un po’ di paura. Non era proprio il miglior momento per assumersi tale responsabilità».

In occasione dell’apertura della moschea alla città ha raccontato un aneddoto molto forte..
«Alla scuola media Federico II, durante un incontro con gli studenti per spiegare l’Islam, alcuni alunni erano convinti che questa parola significasse cintura esplosiva e kalašnikov».

Dicevamo di Jesi..
«Questa città, grazie a Dio, è meravigliosa. Ringrazio l’amministrazione comunale, in primis il sindaco Bacci, l’assessore Butini e il presidente del consiglio comunale Massaccesi, la Consulta della Pace, il tessuto associazionistico, per averci coinvolto in iniziative volte a mostrare il vero volto dell’Islam, quello pacifico e misericordioso. Questa è vera integrazione. Da qualche mese abbiamo pure messo l’insegna davanti al nostro Centro, mai c’era stata. La moschea di Jesi è sempre aperta. Si possono ascoltare i sermoni, può essere visitata. Aprire le porte è il solo modo per chiudere i pregiudizi».

Ritiene pertanto che il dialogo fra religioni sia importante..
«Importantissimo. Quando ci si confronta, si impara e si insegna. È sufficiente la disponibilità a farlo. Con la Diocesi di Jesi, per esempio, siamo costantemente in contatto, ci sentiamo spesso, scambiamo i nostri punti di vista».

Guerre e migrazioni. Qual è la sua opinione in merito?
«Che vorremmo fare di più. Personalmente, quando vengo in contatto con migranti di religione musulmana, indico loro la buona strada, i giusti comportamenti, oltre a fornire le informazioni sulle regole italiane. Nella maggior parte dei casi sono persone che scappano dalla violenza e che cercano una nuova vita: vanno aiutate. Come vanno sostenuti e ascoltati, ancora con più vigore, tutti gli italiani che soffrono, i terremotati che hanno perso tutto, i più deboli».