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Coronavirus, medico osimano a Barcellona: «Situazione estrema, la gente ci applaude dai balconi»

Le difficoltà e i gesti di solidarietà degli spagnoli nel racconto della dottoressa Silvia Bontempo, in Catalogna dal 2009 dove lavora come pediatra in una casa della salute

La dottoressa Silvia Bontempo, all'ingresso della casa salute del Poble Sec a Barcellona.

OSIMO – «Ogni sera alle 20 in punto tutta la Spagna esce dai balconi o si affaccia dalle finestre per applaudire i lavoratori della sanità». La testimonianza arriva dalla dottoressa osimana Silvia Bontempo, medico di base, un passato come volontaria in Sudamerica e Mozambico, dal 2009 residente a Barcellona dove lavora come pediatra nella casa della salute del quartiere del Poble Sec. La Spagna è il secondo Paese al mondo per numero di contagi da coronavirus dopo gli Stati Uniti e in Catalogna ci sono più di 28 mila casi positivi al virus di cui quasi 4.000 sono lavoratori sanitari.

«Dal 12 marzo, da quando cioè sono iniziate le restrizioni, il Paese ringrazia medici e infermieri con questo gesto – ci spiega la dottoressa osimana – e non c’è giorno in cui non arrivino messaggi di gratitudine o di supporto. I vicini del quartiere hanno cucito divise e mascherine, cucinano per noi e ci salutano dalle finestre. Gli abbracci della gente arrivano anche solo con lo sguardo».

Com’è la situazione nelle strutture mediche di Barcellona?
«Qui a Barcellona il sistema sanitario pubblico è messo a dura prova ma non abbiamo la sensazione di essere allo stremo delle forze. Gli ospedali hanno usato questa metafora che credo renda bene l ‘idea: “stirare le risorse che si hanno come un gomma da masticare”. Sono state allestite tende tipo ospedali da campo e alcuni hotel sono stati riempiti di pazienti non gravi che l’ospedale non riesce a seguire. In questo caso siamo noi dell’ambulatorio a gestirli così come i pazienti che vengono curati da casa».

Qual è il vostro ruolo in questa emergenza?
«Il nostro staff è formato da 15 medici di base, 4 pediatre, 12 infermieri e altri specialisti. Facciamo lo screening dei casi, cerchiamo di individuare I possibili contagi facendo una diagnosi differenziale corretta. Una volta identificati i pazienti, scegliamo il circuito diagnostico più adeguato, che può essere una radiografia semplice oppure il ricovero in ospedale. In questo caso seguiamo tutto il processo fino al momento dell’ingresso e nella successiva fase dopo la dimissione, controllando i risultati del trattamento».

I medici italiani hanno lamentato carenza di dispositivi di protezione. Com’è la situazione da voi?
«In Catalogna non mancano, per lo meno nella mia realtà e negli ospedali limitrofi. Quello che continua a mancare un po’ ovunque sono i tamponi. Se ne dovrebbero fare molti di più, ma stanno arrivando tardi e con il contagocce. Nelle due legislature precedenti ci sono stati tagli pesanti alla sanità pubblica spagnola, che hanno sicuramente peggiorato la situazione attuale. Negli ospedali, soprattutto a Madrid, non mancano solo mascherine o respiratori, ma anche le risorse umane, gli operatori sanitari».

Avete anche bambini ricoverati con Covid-19?
«Nel nostro ambulatorio finora ci sono stati soltanto due casi ed entrambi sono guariti. Come nel resto del mondo gli episodi di COVID-19 pediatrici sono per fortuna pochi. Il problema c’è però quando entrambi I genitori risultano positivi e sono ricoverati in ospedale. In questo caso, se nessun altro familiare giovane può prendersi cura di loro, si mettono in marcia dei meccanismi di “affido momentáneo” a carico di famiglie selezionate dal Comune».

Come sta reagendo la popolazione catalana alle restrizioni?
«Col passare delle settimane affiorano di più i malesseri. Sono aumentati i casi di violenza domestica, di depressione e gli attacchi di panico. È una situazione estrema e la nostra capacità di resilienza viene messa a dura prova. Poi ci sono 7 milioni di bambini che da un giorno all’altro sono rimasti senza scuola e senza la quotidianità a cui erano stati educati. E con la speculazione edilizia degli ultimi anni si abita ormai in appartamenti minuscoli, addirittura senza finestre. Difficile stare in quarantena in certi spazi, però non lamentiamoci, facciamo comunque parte del mondo privilegiato».

Nulla a confronto con ciò  che hai vissuto in Africa e Sudamerica…
«Ci sono due aspetti in comune: la paura di essere contagiati e l’isolamento. Solo che in Africa le malattie si chiamavano Hiv, malaria e tubercolosi. Ho passato due mesi in Mozambico, ero appoggiata in un ospedale di suore spagnole e  vivevo in una stanza di 20 metri, senza elettricità né internet. Quello era vero isolamento. Noi qui in casa non ci manca nulla, possiamo stare con le nostre famiglie e andare a fare la spesa. Ma il fatto che ci siano Paesi che stanno peggio di noi non vuol dire che dobbiamo accontentarci e non pretendere una sanità di alto livello. Chi lavora nella sanità è in prima linea e deve avere le giuste protezioni: ci definiscono eroi ma non vogliamo essere martiri».

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