ANCONA – «La pandemia ci sta dando un messaggio di fragilità globale: non si possono ammalare solo le parti, ma anche l’intero. Un evento che diventa drammatico quando l’intero coincide con un pianeta già diversamente malato, inquinato, surriscaldato e fuori controllo». Ad un anno dalla pandemia di covid-19, il professor Luigi Alici, docente di Filosofia morale dell’Università di Macerata riflette sull’impatto del virus nel nostro tempo.
Una pandemia che ha scosso nel profondo la socialità, suscitando la paura del contagio e del contatto con l’altro, stravolgendo le abitudini e provocando una profonda crisi economica, ma anche una riflessione sulla necessità di “cambiare direzione” negli equilibri dell’attuale società.
Il filosofo fa notare che oggi si comincia a parlare di Antropocene per indicare il pericolo che la specie umana possa diventare «un agente geologico globale, che basta da solo a mettere in pericolo la vita sulla terra».
In ogni crisi, un po’ come avvenuto dopo il sisma del 2016, dopo la crisi finanziaria del 2008 o dopo il crollo di Banca Marche, si tende ad affermare che nulla sarà più come prima. Un luogo comune, o questa volta ci sarà davvero un cambio di passo? «Eventi traumatici, come quelli che ha ricordato, provocano sconvolgimenti profondi non solo nel “panorama visibile” che ci circonda, ma anche a livello più profondo, in un “panorama invisibile”, fatto di abitudini, costumi di vita, relazioni. C’è un rapporto stretto fra i due piani, che segna la nostra storia evolutiva».
Secondo il filosofo a differenza di altre specie, l’essere umano «non solo si adatta all’ambiente e concorre alla sua trasformazione, ma è addirittura capace di generare un nuovo ambiente, che in natura non esiste; un ambiente istituzionale, sociale, culturale, economico». Però «la storia non si ripete, i fattori di crisi lasciano sempre il segno. Il problema è se essere a rimorchio degli eventi, in modo del tutto passivo, oppure accettare la sfida e generare un nuovo panorama, cooperativo e progettuale, sulle ceneri di quello vecchio».
Da più parti viene espressa la necessità di rimettere al centro le persone, significa forse un nuovo umanesimo?
«L’umanesimo è un orizzonte culturale complesso, che sembra ancora molto lontano dal nostro tempo, in bilico tra le fughe in avanti del postumano, la nostalgia di un tribalismo chiuso, la disaffezione verso la sfera pubblica. Umanesimo significa anzitutto rimettere al centro la persona, non l’individuo. L’individuo non è la risposta, è il problema. L’idea di persona contiene invece un’apertura relazionale, alla quale dobbiamo dare ossigeno e respiro culturale: una nuova relazione con se stessi, anzitutto, che ci renda meno superficiali e acritici».
A questo il professor Alici aggiunge una buona relazione con gli altri, «capace di generare orizzonti di fraternità universale. Una relazione diversa, meno strumentale e aggressiva, con la natura, una relazione con la trascendenza, con un cielo di valori universali che ci aiutino a guardare lontano».
Quale era di pensiero ritiene si svilupperà nel post covid? Provinciale o digitale-globale? «La tensione tra locale e globale, tra l’universalismo dei diritti e l’ethos condiviso entro concrete comunità storiche viene da lontano, come ci ha insegnato anche il grande dibattito tra illuminismo e romanticismo. Tale tensione potrebbe radicalizzarsi oppure trovare nuovi equilibri creativi. Forse la crescita mostruosa di megalopoli invivibili conoscerà una provvidenziale battuta d’arresto, ma la nostalgia di piccole comunità dovrebbe evitare atteggiamenti di intolleranza viscerale e fondamentalista».
Il filosofo sottolinea «dovremo trovare un nuovo equilibrio, un nuovo rapporto tra prossimità e distanza, tra il micro e il macro, tra etica privata ed etica pubblica. Il nuovo è davvero nuovo se porta con sé un progetto, frutto di sintesi creative e lungimiranti. Per questo è di vitale importanza non sprecare questo tempo in un’attesa apatica e inconcludente».