FABRIANO – «Chiediamo un patto sociale, ciascuno nel rispetto dei propri ruoli, con istituzioni, sindacati, lavoratori, imprenditori, associazioni di categoria. Il tutto perché a Fabriano si possa tornare a vivere, lavorare e nascere», questo il messaggio scaturito dall’incontro promosso questa mattina, 8 novembre, dalla Fiom sulla situazione lavorativa/occupazionale del comprensorio fabrianese e svoltosi nella sala consiglio dell’Unione Montana. Presente, fra gli altri, la segretaria nazionale Fiom, Barbara Tibaldi.
«Dal 2010 al 2018, nell’Ambito territoriale del Centro per l’Impiego (Fabriano, Sassoferrato, Genga, Cerreto D’Esi, Serra San Quirico e Arcevia), aumento disoccupazione pari al 22%, si è passati da 5.274 a 6.759 disoccupati. Nella sola Fabriano: disoccupazione aumentata del 21%, passando da 3.216 a 4.075. A conti fatti, dunque, nel 2018 vi sono 1.000 persone in più di disoccupati rispetto al 2010», alcuni spunti di riflessione proposti da Nicia Pagnani della Cgil.
Nei vari interventi succedutesi, a partire dal Segretario generale Fiom Marche Tiziano Beldomenico, è emersa la volontà di non arrendersi alla crisi che da oltre un decennio attanaglia Fabriano e il suo comprensorio. «Dobbiamo cercare di ricostruire il futuro», l’obiettivo.
A tratteggiare il momento che si vive, il responsabile della zona di Fabriano della Fiom, Pierpaolo Pullini. «Più passa il tempo e più l’andamento non sembra migliorare. Vivere e lavorare oggi a Fabriano è molto complicato per questo abbiamo pensato di invitare a questo incontro anche la classe politica, le Istituzioni, la direzione sanitaria, non per insegnare qualcosa, ma per analizzare insieme ciò che è accaduto e porre le basi per costruire una prospettiva condivisa. Non si sono visti, anche questo è un segnale negativo. In questo territorio si respira la crisi, la mancanza di prospettiva. È chiaro che senza capacità imprenditoriale, non c’è lavoro. Serve rendere il territorio appetibile».
Quindi, alcuni casi concreti di quanto avvenuto in questi anni. Faber accorpamento di due stabilimenti confluiti nel sito di Sassoferrato «che ha portato a un utilizzo importante di lavoratori somministrati e, quindi, ci si trova all’interno del luogo di lavoro con diritti diversi, retribuzioni diverse. Ariston Thermo Group e Termowatt hanno attraversato la crisi, si sono difesi, «ma non senza chiedere sacrifici ai lavoratori». Best acquisita da Electrolux che viene da un piano di riorganizzazione importante, «l’unica Regione non presente al tavolo ministeriale erano le Marche. Ci sono prospettive addirittura di nuove assunzioni, ma la guardia non deve essere abbassata». Elica, «saluto con favore i buoni risultati in termini di fatturato, ma non bisogna dimenticare che i lavoratori da 10 anni, lavorano sei ore a turno. Quindi, credo sia ora che ci si sieda attorno a un tavolo e si ritorni a lavorare 8 ore a turno, garantendo la piena occupazione». La Ghergo che ha acquistato gli stabilimenti ex Antonio Merloni per la produzione di bombole gas e metano, «ci sono riorganizzazioni su riorganizzazione e si parla di una vendita. Noi non siamo disposti ad accettare tutto». JP Industries, sono rimasti in 600, «mai partita sostanzialmente a livello produttivo e, anche per questo, ci sono livelli di indebitamento importante. Nonostante non ci dovrebbero essere istanze di fallimento, la stessa proprietà aziendale ha deciso di fare domanda di concordato. Siamo in attesa del piano industriale, gli ammortizzatori sociali sono in scadenza a fine anno, abbiamo avanzato richiesta di un rinnovo, ma deve essere chiaro, non deve essere concessa per cessazione».
Che fare? «Crediamo fermamente che debba esserci una sinergia fra tutti gli attori che operano nel territorio per fare pressioni a livello politico, intendo governativo, perché si arrivi a comprendere che l’elettrodomestico e la meccanica in generale sono un settore strategico. Per questo occorre dar vita a un tavolo nazionale per il monitoraggio del comparto. Se non si agisce, rischiamo di trovarci qui fra qualche mese con un’altra multinazionale che ha deciso di spostare la produzione fuori dall’Italia. Il territorio di Fabriano per competenze, conoscenze, professionalità, non ha nulla da imparare da nessuno, anzi, è vero il contrario. Noi ci siamo, vogliamo esserci. Ci deve essere una condivisione del problema, ma anche ricercare delle strategie innovative. Il riconoscimento dell’Area di crisi industriale complessa serve, ma di per sé è uno strumento vuoto, che deve essere riempito di contenuti, creando un distretto della meccanica leggera. Noi chiediamo alle multinazionali di fare sinergie fra di loro, coinvolgendo anche i fornitori, per il bene del territorio», ha proseguito Pullini. Considerando, poi, la desertificazione industriale e lo spopolamento dei residenti, con annesso un invecchiamento della popolazione, «magari si potrebbe pensare anche al riconoscimento di una Zona economica speciale, come è previsto dalla normativa per il nostro Mezzogiorno».
A chiudere l’incontro di Fabriano, la segretaria nazionale Fiom, Barbara Tibaldi. «Fabriano nel giro di un decennio è passata da orgoglio e vanto, a un caso nazionale, anche per colpa di multinazionali che acquistano i nostri marchi, attingono a incentivi statali e, poi, quando la situazione diventa difficile, vanno via. In quest’ottica il caso Whirlpool, ma anche Arcelor-Mittal ex Ilva di Taranto, fanno scuola. A tutto ciò si somma, una classe politica che non ha ancora definito come proteggere bene i propri settori strategici, favorendo le competenze e l’innovazione. Rischiamo di diventare un Paese dove si assemblea e basta. Per questo chiederemo al Governo che si sia chiari con le multinazionali e con coloro che vengono a investire in Italia acquisendo i nostri marchi conosciuti e rinomati in tutto il mondo. Vale a dire che se vai via, oltre a restituire gli incentivi, riconsegni anche i marchi. Per questo serve una legislazione ad hoc. Bisogna stare molto attenti perché è nata una nuova categoria di imprenditori, quelli finti. Vale a dire che prendono solo gli incentivi, penso a esempio ai fondi previsti nell’Accordo di programma, ci aggiungono lo sfruttamento dei marchi, e poi salutano. Non è possibile. Altra scusa molto in voga è quella che riguarda l’eccessiva burocrazia, sicuramente un aspetto sul quale andare a incidere. Ma se è assente un piano industriale, se non c’è la politica, anche la burocrazia non sa come muoversi, quindi in realtà è un effetto e non la causa per non sfruttare adeguatamente le risorse», ha concluso.