CUPRAMONTANA – Erika Costarelli, da quando aveva 8 anni, è una performer della compagnia del Massaccio, gruppo folclorico di Cupramontana. Una grande famiglia di artisti che danzano e suonano tamburello, organetto, fisarmonica e caccavella. Si sono esibiti all’ultimo Ufifest, il Festival nazionale del Folclore, a Cupramontana gli scorsi 26, 27 e 28 luglio. Ma Erika è anche un’insegnante di scuola dell’Infanzia che ha dedicato una tesi all’insegnamento della Geografia attraverso il folclore.
Ecco come racconta il suo studio.
Il folclore non è solo intrattenimento, ma anche ricerca. Da cosa è partita la sua tesi?
«Faccio parte del gruppo folk “Massaccio” di Cupramontana fin da piccola. Avevo solo otto anni quando ho iniziato. Con loro ho viaggiato molto in Italia, Europa e Turchia. Nel momento della tesi di Laurea in Scienze della Formazione, all’Università di Macerata, ho voluto unire questa passione per il folclore all’educazione».
Quali attività si possono fare a scuola ricorrendo al folclore?
«Con l’associazione abbiamo fatto diverse attività con le scuole di Cupramontana. In particolare un progetto durato un intero anno scolastico, che s’è poi concluso con uno spettacolo. Il tema era l’avvicendarsi delle stagioni nella campagna cuprense tra Ottocento e Novecento. Per ogni atto una stagione, con i tipici lavori di campagna dell’epoca e le danze. Dal Cantamaggio proprio della primavera, alla Pasquella per l’inverno, fino al Saltarello, tipico della battitura, cioè della fine della mietitura».
Qual è la tesi che ha dimostrato?
«Si tratta di una tesi in Geografia umana. Ho voluto dimostrare che a scuola si può studiare la geografia proprio partendo dal folclore. Punto di forza e di debolezza al contempo è che viene messo in scena un mondo preindustriale, come in una fotografia: quella di fine Ottocento non è la realtà globalizzata di oggi. In quegli anni ogni popolo aveva una propria cultura e una specificità legata al luogo. È un lavoro anche molto antropologico, perché il folclore mette in scena la cultura di un popolo: i mestieri e i materiali usati (si usavano la canapa per i tessuti e la lana, legata all’allevamento di ovini), ma anche la sfera religiosa e rituale.
Quali ritualità oggi perse emergono da queste canzoni e danze?
«Molti gruppi hanno differenziazioni di abito: le donne cambiano vestito e colori a seconda che siano nubili o sposate. In molti canti e balli si richiede poi la benevolenza del divino. Ad esempio in molti gruppi pugliesi le donne invocano la benevolenza del mare, affinché riporti vivi i loro mariti. Come delle nostrane “Penelopi”. Altri gruppi africani invece mettono in scena la condizione di schiavitù in cui è vissuto il loro popolo».
Di quali fonti si è servita?
«Si tratta soprattutto di fonti orali. Ho ben osservato i gruppi che sono venuti al Festival, capendo che l’importanza delle associazioni folcloristiche è proprio il tramandare una conoscenza e un patrimonio orali che altrimenti andrebbero perduti.
Ho osservato attentamente filmati e materiale audiovisivo del festival, visitato i siti internet dei gruppi e ho anche contattato molte persone per telefono. Soprattutto sono state preziose le Pro Loco dei vari paesini e i presidenti delle associazioni folcloristiche».
Che nazionalità hanno i gruppi folk che ha studiato?
«Ho osservato tutti i gruppi che hanno partecipato al Festival del Folclore dal 1996 al 2003. Tra le provenienza ci sono Africa, sud-America, est-Europa, Polonia, Spagna, Irlanda, Argentina. Si tratta sia di gruppi che lo fanno per passione, sia di studenti di scuole di danza. In quest’ultimo caso rappresentano non solo la cultura di un loro territorio limitato, ma un’intera nazione».
Cosa può dirci dei gruppi italiani?
«Ho notato che quasi tutti i gruppi italiani provengono da paesini con meno di 10.000 abitanti. Questo perché l’identità si sente di più in una realtà piccola e rurale. Gli italiani inoltre mettono in scena i ceti sociali più bassi e legati alla terra».
Ci sono elementi archetipici che ricorrono in più gruppi e culture?
«Col folclore si vedono le differenze tra i popoli, ma anche gli aspetti simili. Tutti i gruppi rappresentano l’innamoramento, il matrimonio, il lavoro, il festeggiamento legato a rituali di passaggio. Soprattutto poi nei gruppi africani ho riscontrato i temi di guerra, paura e morte, rappresentati attraverso maschere scaramantiche e apotropaiche, con lo scopo di allontanare spiriti maligni ed energie negative».
Per cosa si combatteva?
«Alcuni gruppi dell’est-Europa mettono in scena veri combattimenti. Ma anche nel folclore italiano abbiamo rappresentazioni dei Vespri siciliani, con la liberazione dalla dominazione francese e la storia del brigantaggio. Parlando di scontri ricorre anche la “lotta amorosa“, una lotta simulata tra uomini per contendersi la donna. Si ricorre a coltelli, con un’escalation di virtuosismi e piroette per dimostrare la propria potenza.
Una lotta figurata è poi anche quella degli stornelli del saltarello: un vero e proprio botta-risposta in cui ci si prende in giro in modo scherzoso, ricorrendo all’arma della parola».
Com’è stato accolto quest’argomento dal contesto universitario e accademico?
«Ho incontrato un professore che ha accolto il tema con interesse, partendo dalle passioni personali di studenti e studentesse. Anche gli altri docenti sono rimasti colpiti dalla particolarità dell’argomento.
Una questione che ha creato dibattito è il fatto che il folclore ripropone qualcosa che oggi non c’è più: il mondo contadino di fine Ottocento. Non ho inventato un nuovo metodo di studio della Geografia, sono partita dalla tradizione. A livello didattico ho appurato che è funzionale il partire da costumi e scenari, per poi riflettere su ambiente, clima e attività economiche di una regione o di uno stato, facendo poi dedurre questi aspetti dagli studenti».
Come proseguono oggi le tue ricerche?
«Oggi sono un’insegnante della scuola dell’Infanzia a Belvedere Ostrense. Quest’anno abbiamo lavorato sulla conoscenza del territorio, collaborando con un gruppo di cantori belvederesi. Al saggio di fine anno i bambini hanno cantato e ballato il saltarello. Sto riuscendo a portare questa passione anche a scuola».
Musica e danza sono linguaggi universali?
«Assolutamente sì. Il folclore travalica i confini amministrativi: ballando insieme ai gruppi stranieri vengono abbattute anche le barriere linguistiche. È anche per questo che a scuola funziona: oggi le classi sono multietniche e la musica aiuta a far emergere le diverse intelligenze».