«Ho appena ricevuto questo documento che sostituisce per sempre il mio passaporto cinese. L’incubo è finito. Non ho più lacrime per piangere. Grazie Italia per avermi dato libertà, sicurezza e dignità. Grazie, Dio, per avermi donato fiducia e speranza. Grazie a tutti per il vostro amore».
Con questo messaggio su Twitter, un po’ in inglese e un po’ in italiano, Dalù, lo speaker della Radio di Shanghai che il 4 giugno 1995 aveva commemorato in diretta l’anniversario del massacro di Tienanmen e da allora era perseguitato dal governo di Pechino, ha annunciato di aver ottenuto il passaporto di rifugiato in Italia, dove è arrivato un anno fa. L’attivista cinese, che si è convertito al cattolicesimo nel 2010, ha scelto di vivere nella regione d’origine del missionario Matteo Ricci, in un piccolo paesino dell’entroterra marchigiano.
Dalù non è il vero nome del dissidente, ma uno pseudonimo, e non è noto neppure il nome della località in cui abita; nei mesi scorsi ha ottenuto lo status di rifugiato in Italia ai sensi della Convenzione di Ginevra, grazie al lavoro di ricostruzione probatoria svolto dal suo avvocato, il marchigiano Luca Antonietti. Il legale del foro di Madrid, nato a Jesi e vissuto a Corinaldo, formatosi presso l’Università degli Studi Internazionali di Shanghai, aveva incontrato fortuitamente Dalù solo pochi giorni dopo l’arrivo del giornalista in Italia.
«Laureatosi a Pechino negli anni ’80, Dalù conduceva una trasmissione radiofonica alla domenica mattina a Shanghai. Una domenica di giugno del 1995 ha avuto il coraggio di parlare di quanto avvenuto sei anni prima in piazza Tiananmen», ha scritto Antonietti raccontando la storia di Dalù lo scorso giugno, su asianews.it. «Secondo le stime di organismi indipendenti, nella notte del massacro (fra il 3 e il 4 giugno 1989) sono morte dalle 300 alle 2 mila persone, stritolate dai carri armati o colpite dai fucili mentre fuggivano. Il Partito ha sempre bollato come “controrivoluzionari” gli studenti ed operai del movimento e proibisce da 30 anni di commemorare l’evento. La voce di Dalù fece scalpore e superò il confine cinese: la stampa internazionale trattò il caso e il programma radiofonico venne immediatamente sospeso e cancellato dal palinsesto. Dalù venne licenziato in tronco dopo essere stato costretto a scusarsi. Gli dissero che avrebbe dovuto anche ringraziare il Partito per avergli risparmiato la vita. Il reporter è stato condannato all’oblio in patria, con la segnalazione nel suo fascicolo personale che lo rende uno scarto della società».
Nel settembre 2019 – ricorda ancora Antonietti – «Dalù riesce a fuggire e arriva nella terra d’origine del gesuita Matteo Ricci. Dopo alcuni giorni di preghiera trascorsi in Vaticano, venne notato in chiesa, nella frazione di un paesino di montagna delle Marche, dove si mimetizzava tra le poche anziane presenti alla funzione. Il suo vero desiderio era di chiedere protezione internazionale e risiedere in un luogo ideale dove recuperarsi e trovare la concentrazione per terminare di scrivere il suo libro perché – come ricorda sempre – “non bisogna mai vergognarsi di raccontare la verità”. Il caso mi è stato subito segnalato da un amico del posto, incuriosito dalla presenza di un cinese nel borgo. Ho deciso non solo di fornire assistenza legale, ma anche di offrirgli ospitalità. È diventato uno di famiglia. Il giorno in cui gli è stato notificato il riconoscimento dello status di rifugiato, come segno di gratitudine per l’Italia e per la sua gente, Dalù ha esposto dal balcone un tricolore che mia madre aveva cucito tanti anni fa. Il suo è un miracolo di libertà, speranza e verità che mi onoro di aver difeso e portato all’attenzione del mondo che ha estremo bisogno della sua testimonianza».