ANCONA – «L’Epifania, collegata alla celebrazione per l’anno nuovo, nelle Marche era molto più sentita rispetto a Capodanno, che era più un rito cittadino, poco vissuto nelle campagne dove si è radicato con il trascorrere del tempo». A raccontare la tradizione di questa festa tanto amata dai bambini è il professor Tommaso Lucchetti storico della cultura gastronomica dell’Università degli Studi di Parma.
Il docente racconta che mentre le celebrazioni per l’arrivo del nuovo anno vedono la «tradizione scaramantica del rinnovo» che in alcuni casi si traduceva nel buttare via le cose vecchie dalla finestra, il tema che ricorre nell’Epifania è quello dell’augurio e del dono dei Re Magi. «L’immagine della vecchietta simboleggia la natura dell’anno appena trascorso che si congeda» dando spazio al nuovo e restituendo il senso di rinnovamento del raccolto».
Sul fronte della tradizione culinaria il Capodanno rappresenta «un rinnovamento laico» con piatti grassi come il cotechino, mentre le lenticchie venivano mangiate perché la loro forma ricordava quella delle monetine di bronzo. L’altro elemento tradizionale era rappresentato, racconta il professor Lucchetti dall’uva messa da parte con la vendemmia e posta ad essiccare per essere mangiata a Capodanno, «come augurio di abbondanza per l’anno nuovo».
Tornando alle tradizioni collegate all’Epifania, il docente ricorda che come i Re Magi portavano un dono a Gesù Bambino alla stessa maniera in occasione di questa festività religiosa si usa «portare doni ai bambini. Una volta infatti la tradizione di Babbo Natale non era ancora presente e l’unico momento in cui nelle famiglie, anche le più povere, i bambini potevano ricevere dei doni era proprio l’Epifania».
In questa giornata speciale, ricca dì suggestioni, ai bambini venivano regalati «dolcetti che evocavano la natura: un classico era donare dei mandarini, una presenza molto ricorrente, presente già a inizio ottocento. Si tratta di un frutto profumato – spiega – che ricorda terre lontane».
Nella calza della Befana «oltre ai mandarini – racconta il professor Lucchetti – venivano messe caldarroste e nel Maceratese, le ‘Paccucce’. mele spaccate a metà ed essiccate che potevano anche essere un po’ dolcificate con miele. Nel Fabrianese invece si usava donare i ‘Befanini’ e i ‘Santaremascini’, dolci molto semplici realizzati con pasta di pane dolcificato a cui si aggiungevano frutta e uvetta e che potevano essere modellati nelle forma più disparate, o di Re Magi o Befana, o anche casette, stelle». In altre zone delle Marche nella calza della Befana si potevano trovare dolcetti fritti, mentre in Vallesina c’era la tradizione delle ‘Besquesce’ o ‘Bisquesce’, dolcetti fritti che in alcune zone si riscontrano anche a Carnevale, e sono in genere profumati con mistrà e buccia di limone, mentre qualcuno aggiungeva anche uvetta. A Corinaldo e Genga c’era invece la tradizione delle ‘Pecorelle‘, dolci ripieni di mosto e frutta il cui obiettivo era anche quello di far giocare i bambini e spesso questi biscotti avevano delle forme che si collegavano al presepe: come piccole pecore, stelle».
Il gioco non riguardava solo i bambini, infatti un’altra tradizione tipica di questo periodo dell’anno, Capodanno ed Epifania, è la Pasquella, «un rito di passaggio che vedeva un gruppo di cantori e musici che si recavano di casa in casa per raccogliere cibarie che venivano donate, come ad esempio farina, uova, lardo, salsicce, cibo che poi veniva consumato durante l’Epifania, in occasione di una grande merenda condivisa da tutti, per congedare le feste natalizie che sarebbero poi state seguite dal periodo più grasso dell’anno: il Carnevale che era contraddistinto da una grande abbondanza di carne e che a sua volta si sarebbe chiuso il giovedì grasso che avrebbe dato poi avvio alla Quaresima in preparazione della Pasqua».