Quest’anno ricorre un tondeggiante anniversario per il Gruppo Speleologico Marchigiano i cui membri, ormai decadi orsono, scoprirono le Grotte di Frasassi. Una ricorrenza sottolineata dall’attenzione generale alla tematica e per la quale lo scorso 6 Novembre il Rotary Club ha invitato i maggiori esponenti del Gruppo presso il ridotto del Teatro Le Muse di Ancona a rinnovare le emozioni attraverso i ricordi dei presenti.
Abbiamo intervistato Maurizio Bolognini, il primo a calarsi allora in quella grotta, il cui racconto ha un duplice aspetto: “perché se è vero che c’è una storia da raccontare che appartiene al passato, è altrettanto vero che c’è una storia da raccontare dell’oggi.”, ha dichiarato. Dalla scoperta all’esplorazione quindi, un viaggio significativo all’interno di un luogo che tanto ha detto e tanto ancora sembra abbia da dire.
L’occasione è il 70esimo anniversario del Gruppo Speleologico Marchigiano di Ancona, gruppo nato nel 1948 e famoso per aver scoperto il 25 settembre 1971 il complesso carsico nel sottosuolo marchigiano. Ci descriverebbe il Gruppo e la natura della sua interazione col Cai, il Club Alpino Italiano?
«In effetti il Gruppo Speleologico Marchigiano è nato nel 1948, per opera di alcuni antesignani della speleologia marchigiana, veri pionieri dell’esplorazione sotterranea, quando solo una vera e solida passione poteva far superare le mille difficoltà dovute alla mancanza di attrezzature specifiche. Tra i successi ricordiamo l’esplorazione sistematica del 1948 dell’allora sconosciuta Grotta del Fiume (Frasassi). Il Gruppo era animato da alcuni appassionati che si muovevano la domenica da varie località della provincia e della regione: per questo motivo poteva appellarsi della denominazione di Gruppo Speleologico “Marchigiano”.
Poi, nel corso degli anni, l’attività è stata mantenuta e perpetuata dagli “anconetani” ed il Gruppo Speleologico Marchigiano è diventato il gruppo speleo della città dorica. Sono entrato nelle fila del Gruppo nel giugno del 1969 e, senza essermene mai troppo allontanato, di nuovo nel gennaio del 2016 come socio effettivo. Il Gsm è un’entità autonoma con proprio statuto e struttura organizzativa. Ad esso e ai suoi cinque soci fondatori, Pietro Pazzaglia, Leo Rotini, Fabio Sturba, Giancarlo Cappanera e il sottoscritto, si deve, nel 1970, la rinascita della sezione del Cai di Ancona, allora sospesa, grazie all’apporto dei giovani del Rotaract di Ancona e del primo presidente della nuova era, Orlando Orlandi. Per più di quarant’anni il Gsm Ancona, pur conservando la propria autonomia, ha contribuito, con ruolo funzionale, al prestigio e lustro della Sezione Cai, trovando sempre in questa grande famiglia, le condizioni e lo stimolo per svolgere la propria attività a vantaggio dei giovani e della città intera, raggiungendo lusinghieri successi. La rifondazione della Sezione rese possibile anche la nascita di attività legate alla montagna, come l’escursionismo o le pratiche dell’alpinismo, allargandosi in un benefico, corale respiro sezionale. Purtroppo, con grande dolore e rammarico di chi ha dedicato a questo sodalizio una considerevole parte della propria passione, il fortunato connubio tra Gsm e Cai di Ancona è stato considerato in questi ultimi tempi istituzionalmente non sostenibile con conseguente incomprensibile separazione, dopo più di quarant’anni, dei due sodalizi».
Il Gruppo Speleologico Marchigiano si occupa anche di operazioni di soccorso?
«Non esattamente. Il Gruppo, come tanti altri sodalizi della regione, contribuisce con i propri soci volontari alla formazione del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico e al suo buon funzionamento».
La scoperta della “Grotta Grande del Vento” 47 anni fa, nel 1971, lei tra i protagonisti: com’è avvenuta?
«Il rinvenimento di quella che non era altro che una fessura alta circa 20 centimetri, avvenne del tutto casualmente da parte di due nostri amici, Rolando Silvestri e Umberto Di Santo, estranei all’attività del Gruppo Speleo e all’esplorazione della grotta, nel mese di giugno del 1971, quando, grazie a questa fortunosa quanto casuale escursione, risalendo le balze della gola di Frasassi, in assenza di qualunque traccia o accenno di sentiero, raggiunsero quella che diventerà l’ingresso naturale della Grotta Grande del Vento».
Lei è stato il primo a calarsi nel buio della grotta, cosa ricorda di quei momenti?
«Più che di ricordi devo dire di una replica continua e interminabile di emozioni, di brividi e di pelle d’oca che, ancora oggi, dopo 47 anni, sostengono la mia testimonianza, soprattutto ai bimbi e ai giovani delle scuole. Racconto loro la tenacia di un gruppo di giovani poco più che adolescenti, nel non fermarsi davanti alle difficoltà, di procedere oltre la frana, di vincere il tuono e l’impeto del vento liberato da centinaia di migliaia di anni di prigionia, di giungere sul ciglio del baratro che ci risucchiava nell’oscurità del mistero, nell’estasi ipnotica dell’incredibile. Racconto del miracolo che trasformò un gruppo di ragazzi inesperti e alle prime armi in un organismo efficiente e disciplinato, una macchina vincente. E poi il lancio del sasso, per sondare le profondità, lo spazio non avvertibile. Provate a chiudere gli occhi, immaginando il sasso che attraversa il mondo delle tenebre per cinque lunghi, interminabili secondi. Fino a tremare al ritorno dell’eco, vibrazione terrena eppure terribile frutto dell’immaginazione. Centoventicinque metri di pozzo! (Cento sulla verticale). La sorte ha voluto che fossi io a dover scendere dentro l’affogatoio nero, dentro l’oscurità densa e cremosa che mi avvolse fino a perdere il contatto con le rocce intorno, per diventare anch’io notte dei millenni. Giù, giù, piolo dopo piolo della minuscola scaletta, la corda di sicura trattenuta e attentamente ceduta alla mia discesa dai miei compagni».
Le successive esplorazioni: alla ricerca forse di una nuova emozione pari a quella vissuta allora?
«In effetti le successive esplorazioni ottennero il risultato che tutti noi, impegnati nel portare la nuova scoperta alla conoscenza del mondo, diventammo artefici dell’emozione collettiva, direttamente vissuta, non più per il racconto di che era già andato giù. Fu l’apoteosi del Gruppo. Poi in tutti questi anni, le scoperte di nuovi rami o gallerie o ambenti di varia importanza si sono susseguite senza interruzione, e devo dire che davanti ad una galleria che si perde in profondità o ad una strettoia promettente, l’emozione e la spinta dell’ottimismo euforico sono sempre le stesse».
Che tipo di evoluzione hanno avuto nel corso del tempo le tecniche di esplorazione? Il ruolo dell’attrezzatura, come è mutato dal 1971?
«C’è stato un cambiamento epocale. Io mi sono fatto le ossa grazie alla speleologia con corde e scale, le prime per scendere, le seconde per risalire. Una grande quantità di materiali per la progressione e l’esplorazione in grotta. Di conseguenza occorreva sempre un numero abbastanza alto di partecipanti, per dividersi il peso. Se questo era un impedimento, bisogna però dire che il risultato di affiatamento e di solidarietà creava lo spirito di amicizia che ancora vive in alcuni di noi. Oggi le tecniche e gli strumenti sono del tutto rivoluzionati. In grotta si va con corde che vengono sviluppate lungo le difficoltà, pozzi, pareti o passaggi vari, con diversi attacchi alla roccia, frazionandone la lunghezza in tratti di corda brevi in modo da evitare sfregamenti e lacerazioni. Ciascuno degli speleologi-esploratori ha addosso un imbrago che abbraccia il bacino ed attaccati a questo diversi “attrezzi” che servono per la discesa e bloccanti per la risalita. La vecchia sicura non c’è più. Insomma, volendo in grotta si può anche andare da soli».
Quanto è importante la conoscenza del territorio prima di cimentarsi in attività come questa, in cui, letteralmente, ci si immerge?
«La conoscenza è fondamentale, soprattutto dal punto di vista della geologia. Ricordiamo che la presenza delle grotte nel sottosuolo è dovuta al fenomeno del carsismo ovvero all’azione delle acque meteoriche acide che penetrando le fenditure delle rocce calcaree le disciolgono creando vuoti anche giganteschi come saloni e gallerie. Poi una volta all’interno dei complessi ipogei, una informazione importante può essere la dislocazione e l’orientamento delle faglie che sono piani di interruzione e debolezza dove l’acqua può svolgere con maggiore successo la sua funzione solutoria».
Che cosa l’ha avvicinata tanti anni orsono all’attività delle esplorazioni?
«Semplicemente un mio compagno di classe, Gianni Cieri, anche lui un socio del Gruppo Speleologico Marchigiano di allora, che praticava già la speleologia e che mi avvicinò a questa passione».
Qual è l’aspetto che più la affascina della speleologia e che ancora tiene viva la sua passione? Le caratteristiche che non dovrebbero mancare ad uno speleologo?
«Sicuramente l’aspetto esplorativo, se volete la consapevolezza che allo speleologo è dato di scoprire ancora luoghi e aspetti della Madre Terra che rimarrebbero altrimenti ignorati; insieme al contributo che si può dare alla scienza che sempre più spesso e per fortuna si serve della speleologia che, voglio ricordare, è una attività del tempo libero, un hobby, una passione. Beh, vedete, provate ad immaginarvi immersi nel fango fino al petto ed un vostro compagno che, più avanti, vi fa: qui è peggio! Questo è uno speleologo!».